Pindaro: L'opera superstite
Bologna: Cappelli, 1980;
Nuova edizione in 4 volumi con testo a fronte
Milano: SE, 1989-94
(L'altra biblioteca)

2: Le Pitiche, 1990

 

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Un paesaggio di montagne profonde, sacre a divinità profetiche, Il Parnasso e l'Elicona, chiude Delfi, il più antico e misterioso dei luoghi sacri della Grecia. Da una fenditura uscivano esalazioni inebrianti. Il famoso tripode non era che un supporto, divenuto poi sacro e di forma immutabile, che sospendeva la Pizia tra questi vapori; investita dal Dio, la profetessa rendeva responsi che i sacerdoti raccoglievano, almeno al tempo di Pindaro e per molte generazioni ancora, in forma ritmata.

Il nome del luogo - Pytho - ricordava a un greco insieme la radice di “conoscere” e l'immagine del serpe Pitone che l'avvento o la “vittoria” di Apollo, Dio della luce e della profezia, non dannò ma chiuse nel suo segreto ctonico. La morte era bandita. Gli agoni di Delfi erano i soli a cui mancava ogni memoria funeraria.

Le Pitiadi si celebravano nel terzo anno di ogni Olimpiade, in agosto-settembre. Erano aperte da gare musicali e, dopo le consuete prove ginniche, si chiudevano con la corsa delle quadrighe. C'era la solita procedura: l'annuncio, la tregua, i riti, il premio di una corona di alloro, la pianta apollinea, appositamente colta nella valle di Tempe.

Spicca tra queste liriche la IV Pitica, la più lunga e straordinaria ode di Pindaro, che Foscolo, nella “Ragion poetica” delle Grazie, sceglieva tra i vertici della poesia dell'Occidente.

 

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