Pindaro: L'opera superstite
Bologna: Cappelli, 1980;
Nuova edizione in 4 volumi con testo a fronte
Milano: SE, 1989-94
(L'altra biblioteca)

1: Le Olimpiche, 1989

 

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Ci fu un tempo in cui l'uomo sembrò barbaro per eccesso di ricchezza, in cui fu e si sentì completo senza scienza e critica, maturo vivendo di fantasia, leggende e grandi istinti: è questa l'età arcaica. La nostra presunzione la vede in funzione nostra; l'uomo arcaico, da parte sua, ci avrebbe sentiti dissociati, infelici e perfino irragionevoli. Il poeta più rappresentativo di questa lunghissima epoca umana - e la poesia è il più compiuto dei documenti storici - è Pindaro, vissuto all'alba, lenta, del mondo della ragione.

Questa lontananza spiega il “caso” Pindaro: considerato per tutta l'antichità di gran lunga il maggiore dei lirici, come diceva Quintiliano, parrebbe inassimilabile al mondo moderno.

Eppure il soggiorno nel suo mondo arcaico - è la tesi del saggio introduttivo - non è meno attraente di quelle civiltà lontane che proprio oggi si cerca di conoscere e di non lasciar perire. Ma con la luce del mondo greco, l'energia dell'intelligenza, il gusto del gratuito, che sono il seme di tutte le conquiste della civiltà occidentale.

E' bene dunque rileggere, cioè “tradurre”. Risentire senza atti di fede una delle più alte e commosse voci della lirica mondiale. La più limpida poesia e la più accurata filologia concorrono ad accompagnare il lettore nel viaggio a quel passato immortale, indispensabile alla sua coscienza di uomo moderno.

Scriveva Dario Del Corno, quando apparve nel 1980 questo testo nella sua prima edizione: L'interpretazione di Mandruzzato esprime sicuri esiti d'arte. L'unica via perché Pindaro possa raggiungere il pubblico d'oggi è appunto che si salvi la sua qualità poetica, ossia che il traduttore si faccia lui stesso poeta: tralasci il calco, affronti il mistero e il rischio dell'atto creativo. Ora si ripropone, interamente rivisto e col testo greco a fronte.

Le Olimpiche

L'Olimpiade del 776 a.C., da cui comincerà il computo del tempo per il mondo greco, fu anche per i greci inizio convenzionale. Vera prima Olimpiade fu quella che Pindaro evoca nella decima Olimpica, con il maggior periodonìca, vincente in tutte le gare, Eracle stesso. Il suo simbolo coincise con il concetto stesso di aretè, di valore guerriero.

Olimpia non era una città ma solo un santuario, sorto intorno alla tomba di Pelope, nel luogo dove aveva conquistato Ippodamía. Comprendeva un complesso di templi in cui preminevano quelli di Zeus e di Era. La sua neutralità fu sempre rispettata e anche rigorosamente sorvegliata da Sparta. I giochi si tenevano ogni quattro anni, tra giugno e settembre secondo un lungo ciclo lunare. Le gare venivano ufficialmente bandite in tutta la Grecia e in caso di conflitti armati si stabiliva una tregua sacra, le “mani ferme”. La durata era di sette giorni (più tardi di cinque). Erano quattordici prove: le equestri (quadrighe, carri trainati da mule, cavali montati), le podistiche (“stadio” di 200 metri, “diaulo” di 400, “dolico” di 2.400); lotta; pugilato; pancrazio (lotta e pugilato insieme) e pentathlon, le “cinque prove”. Il premio consisteva in una semplice corona di olivo selvatico.

Il “tifo” non mancava di certo, ma Pindaro rappresenta l'aspetto ideale di quelle gare, con la fede che sappiamo. Ma quella fede ne enucleava il significato più profondo e perciò più autentico. Dalle gare furono esclusi, come prima i “barbari”, anche gli ex-barbari, romani compresi; ciò non diminuì il loro rispetto. L'anno della loro fine fu esatto come quello dell'inizio, il 393 d.C.

Questa traduzione propone un restauro del tono pindarico, fin dalla famosa apertura, in chiave di magnificenza, della prima Olimpica: àriston mèn hydor. Preziosa è l'acqua, l'oro.

 

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