Opinioni

 

I Dèmoni
Undici confessioni apocrife
Padova: Il Poligrafo, 2006, pp. 295

Il mondo antico come fu davvero? Come raggiungerlo? Ci possiamo fidare della guida di Enzo Mandruzzato che l’ha percorso e ripercorso negli anni, ne ha tradotto i poeti in modo insuperato, ne ha studiato le lingue proponendo vie nuove di apprendimento (a cui la gente ha risposto: il suo Il piacere del latino è stato un best-seller Mondadori), ha letto e penetrato le fonti con quello speciale piacere della conoscenza che è un sua peculiare caratteristica. Ora dalla sua cultura, ovvia e naturale per lui ma stupefacente per tutti, è nato questo libro, sbocciato come un fiore imprevisto, tutto godibile in sé, autosufficiente come una  fantasia. Ed è tutto “vero”, corredato da fonti mai tradite.

Narra l’anima del mondo antico, da Omero a Giuliano Imperatore: nelle svolte epocali di più di un millennio undici personaggi (sette notissimi e quattro creati) si raccontano, mettono a nudo la loro anima, le verità delle loro vite e il senso di quella storia. Sono tutti personaggi affascinanti, dominati da una responsabilità appassionata verso il loro destino, che potrebbero credersi ispirati da un daimon. Ognuno è una categoria: la religiosità, l’amore della poesia, la passione per la grandezza della propria gente, la sapienza, l’amore, la nostalgia o sogno di far rivivere un mondo perduto. Come l’ultimo dei suoi personaggi, Giuliano, Mandruzzato sogna forse una pitagorica reincarnazione dell’anima antica nel nostro mondo: non sarebbe cosa nuova, ci fu già il Rinascimento.

Dalla metà del libro comincia quella compresenza delle due concezioni del mondo, la classica e la cristiana, nelle cui alternanze e interferenze, coabitazioni ed esclusioni l’anima antica, che pare estinguersi, impregna di sé il Cristianesimo e lo trasforma. Una delle pagine più affascinanti è la confessione “pitagorica” dell’imperatore Giuliano che contrappone l’eternità dell’io al “materialismo” cristiano bisognoso del corpo, che vuole risorto colla morte per il Giudizio. “Lo spirito è come la prua dell’io, e si apre un solco nel mare dell’esistenza e dell’ignoto senza mai vedersi con le sue cubie…” (pp. 288-289). Sarebbero da citare molte osservazioni, immagini e pensieri che la memoria del lettore trattiene, persuasa dall’eleganza dello stile, esperto di tutti i toni e i registri di questa narrazione complessa.

Dallo spiritualismo mitico dell’arcaismo omerico, quando gli Dei visitavano gli uomini, al maturo misticismo del IV secolo, undici vite ci tentano, fuse e indipendenti, ognuna con lo stile anche narrativo del personaggio: Nestore parla come cavaliere anziano dell’orda achea alla presa di Troia, Erode da “tetrarca”, l’”uomo della Sindone” da bandito qual è, Paolo da “inviato” del Cristo, Catullo da poeta, Orazio da sapiente… Ognuno si propone, direi meglio si impone, con la forza del vissuto. Proprio come si sono imposti all’autore, che non si era prefissato di narrarli, per poi andare alla ricerca dei documenti necessari, ma, al contrario, studiando ad altri fini i documenti, a un tratto se li è trovati formati, nati nella mente. Scrivendo per la Mondadori un libro su Omero, si è incontrato con Nestore (e Achille), traducendoli, con Catullo e Orazio, nei suoi studi cristologici, con Paolo e così via… Ma perché ha voluto che si raccontassero da sé, non li ha narrati lui come ha fatto con Foscolo? Lo dice chiaramente, che non solo la prima persona gli è venuta più naturale e spontanea, ma che essa permette di superare senza lacune artistiche le lacune dei documenti antichi facendole coincidere con le scelte della memoria, che coglie dal tutto le cose che ci importa dire di noi. Osserviamo così  da vicino e dall’interno alcuni tra i potenti più calunniati della storia: Erode, Nerone, Giuliano, personaggi travisati dai luoghi comuni della cultura, Achille, Catullo, Orazio, Paolo… Il Professor Giuliano Pisani, grecista consumato, presentando il libro il 26 maggio, ha parlato di un “misterioso contatto” che Mandruzzato riesce a stabilire con l’io profondo dei protagonisti; nella stessa occasione, la poetessa Raffaella Bettiol ha parlato del libro come di un nóstos, un viaggio di ritorno alla grande civiltà greco-romana che è la nostra casa e la nostra origine.

Tra il quasi tutto che resterebbe da dire, diciamo che questo è un libro per tutti, almeno tutti quelli che del mondo antico hanno la curiosità.  Gli studiosi saranno certo i più provocati dalla novità dell’impostazione, dalla messa in discussione di tutto il noto, o meglio dall’energica rimozione di tutte le polverose e pigre stratificazioni, ma il lettore comune, quello che Mandruzzato incoraggia a leggere gli antichi senza paura, proprio come i moderni, troverà nel libro tutte le conoscenze di cui ha bisogno, e con i suoi personaggi proprio quel mondo antico che cercava.

ROSAMARIA GALLABRESI

 

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(ANONIMO)
Diario di un dopoguerra (1918-1922)
A cura di Enzo Mandruzzato
con una nota di Giorgio Segato
Padova: Panda, 2005, pp. 171

I recenti richiami al 60° della Resistenza non di rado senza condivisa interpretazione, hanno ancora una volta dimostrato la necessità di contemplare, in quel Novecento, il precedente regime mussoliniano e quindi, innanzitutto, l'origine di un venticinquennio di episodi articolati attra­verso una continuità meglio comprensibile se viene considerato il punto di partenza. In verità gli anni dal 1918 al 1922, dalla fine della Grande Guerra alla Marcia su Roma, non hanno prodotto la stessa abbondanza storiografica di altre successive fasi della ambiziosa, proclamata Era Fascista.

Questo diario offre l'occasione per comprendere motivi di vario ordine, economico, sociale e politico dell'insorgenza del fascismo attraverso l’esemplificazione di quel che capita all'autore, un paradigmatico protagonista di quel tempo. Di lui non viene dichiarato il nome per impegno di segretezza. Ma il curatore ne conosce perfettamente non solo l'identità, ma anche il destino politico, durante la Resistenza, di chi avendo aderito, come buona parte della generazione di reduci del ceto medio e borghese, sin dalle origini, all'originale corso politico, ha resistito fino all'ultimo nella fedeltà alle proprie idee, militando infine nella Repubblica Sociale in un momento in cui il vissuto del diarista ricompare, per segnalazione del curatore, con un dramma umano estraneo alle vicende propriamente storiche, ma riconducibili a quelle personali del dopoguerra. Questo diario segue invero in parallelo due percorsi, quello del reduce decorato in rapporto con la società in fase di transizione e quello del giovane intellettuale, latinista, con le sue problematiche sentimentali vagamente dannunziane e con gli incidenti della sua età.

Chi dunque voglia trovare materiale rappresentativo di quell'epoca definita come “l'agonia dello stato liberale” potrà via via ritrovare sufficienti elementi per comprendere lo stato d'animo, il moto reattivo agli errori del socialismo di allora, e valutare una modalità di giudizio sui problemi sociali che quel dopoguerra aveva suscitato, un giudizio ricavabile dalle osservazioni di chi poi, nel finale del diario, decide di partecipare alla Marcia su Roma con subitanea decisione, facendo parte della colonna dei romagnoli che da Perugia si dirige verso la capitale.

Considerando la rarità di resoconti documentati di quelle personali esperienze, quanto yien narrato acquista singolare interesse, soprattutto nelle pagine terminali relative alla conquista del governo da parte di Mussolini nell'ottobre 1922.

Armando Diaz con il Bollettino della Vittoria; D'Annunzio a Fiume: Lenin, Trotzkij e Wilson; Orlando, Sforza, Clemenceau a Versailles; Bissolati, Turati, Treves socialisti; Giolitti, Nitti e Facta; Starace a Trento; Pirandello, Palazzeschi, Ungaretti. Papini, Panzini; Bordiga comunista; i quadrumviri della rivoluzione; Giovanni Breda e i martiri fascisti: nomi che compaiono qua e là nel vivace e triste clima politico di guerra civile, con la costante presenza di Benito Mussolini e il suo conclusivo, ben riuscito colpo di Stato.

GIULIANO LENCI
(«Padova e il suo territorio», 20, 116, 2005)

 

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Ti perdono la morte

Anche la copertina del libro, grigio-cenere, con qualche macchia più oscura, sparsa come una lagrima, è significativa di questo libro di poesia: un poemetto sulla morte della propria madre, del poeta Enzo Mandruzzato. Alla fine di esso, infatti, si consuma l’incontro e il confronto con la madre; e il figlio ne sparge la cenere, ne dissolve, come il suo antico maestro filosofo, pietosamente, l’ombra, la sua «forma d’atomi»: madre e figlio sono finalmente conciliati, consumati nell’amore, nel lutto, nel nulla, che succede al buio della morte.
Quel buio, tanto temuto dal figlio bambino (pag.26), che ne ricorda il trauma, il terrore; ma ora che la madre è entrata in esso, non fa più paura, come nessuna Presenza invisibile, temibile di allora. L’esperienza della morte è come stata fatta, vissuta, tramite la madre, anche dal figlio: e così il confronto, il rimprovero, il giudizio, la riparazione, lo “strano ristoro” del "lutto” (pag. 17), tutto è compiuto. Anche il dolore:
«bisogna - che finisca il tuo e mio (dolore forse) » (pag. 47): in un sogno la madre gli impone con severità la sua decisione.

E’ un libro drammatico, questo di Enzo Mandruzzato. Che ha la sua massima espressione in quel verso che lo titola, paradossale, disperato, misterioso: «...e non Dio è misterioso.., ma tu - .. .» «Tu volevi salvarmi dalla vita…» (pag.46). Siamo al nodo centrale del conflitto: «Tu hai sempre temuto / che io amassi poco la vita, / ma mai ti sei permessa d’accettare / una calunnia cosi grave, / un pensiero cosi umiliante e tragico / un’offesa così bassa a ciò che chiamavi Dio» (pag.14). Il figlio è entrato nella vita, disadatto ad essa, all’essere al mondo, al suo destino di avere una madre avida di essere, di esistere, sicura, schiava assoluta del figlio, in cui ha la sua grazia unica. Il figlio la perdona: «ti perdono / la morte mentre tu, più intollerante e grandiosa / non perdonavi mai il mio dolore.»
Si capisce, da questi brevi cenni, la memoria complessa, contrastata, che il poeta ha della madre: madre che onora e che rispetta nel suo insondabile mistero, da cui è dipeso il suo destino. E’ un libro di cultura arcaica e classica, come tutta la cultura di Enzo Mandruzzato, traduttore, e interprete anche di Omero e dei Lirici greci arcaici. Antidecadente, concreto e oggettivo, egli si colloca fuori dalla tradizione virgiliana e pascoliana di molta nostra poesia sulla memoria dei defunti e sulla morte in genere. Diverso da tutti, da Luzi, Caproni, Parronchi, Porta, Testori, che hanno trattato questo tema. Con Mandruzzato siamo contemporanei degli antichi, pur con la nostra cultura più inquieta e perturbata della loro, che si confronta però ancora con gli stessi problemi, da cui dipende il senso o il non senso della nostra esistenza.

ANTONIO FACCIO
(Presentazione del libro a Bassano, giovedì 3 maggio 2001)

 

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Ti perdono la morte

Nulla di più difficile che toccare temi ricorrenti con la massima frequenza nella letteratura, come il rapporto madre-figlio, entro la raggiera della sue connessioni implicite con psicologia, sociologia, e regioni del simbolico. E' un terreno comunque "pericoloso", per la facilità di enfasi e scivolamenti di ogni genere che vi sono impliciti, ed insieme minaccioso e incombente per una sua "eterna necessità" a raso dell'indicibile. E davanti a questa nuova prova poetica di Enzo Mandruzzato, figura estremamente caratterizzata e avvertita nella sua poesia (oltre che notissimo filologo, e fresco, intrepido divulgatore) il suo aver toccato quel tema già allarma, e poi, nell'atto dell'invenzione spiazza il lettore, andando ben più in là delle aspettative.
L'insondabile enigma della madre, in questo Ti perdono la morte, traspare entro una "storia che non vuol esserlo" e che pur restando strettamente connessa alla realtà, arriva a toccare una mitogenesi, anch'essa non voluta. Questa madre così umanamente madre, che si risolve attimo per attimo in presenza totale nei confronti del figlio - nel loro viversi vicini e pur sempre sghembi - tocca costruzioni relazionali così complesse e sfuggenti da ridarci quasi la comparsa di una Potnia tutta particolare. Si tratta di un essere che quanto più vuole e osa essere "vicino", si colloca in realtà su parecchi piani contrastanti, costellati di affermazioni che sono negazioni e viceversa, così che il "ravvicinato" è sempre minato da lontananze, entro una serie di graffi, di tagli netti e insieme di intricate manifestazioni di affetto mai pienamente esplicitabili. Eppure, questa naturale maternità o matrità, note più o meno all'esperienza di tutti, s'incontrano qui con la vicenda della gestione, sempre ardua, di due privatezze immerse nella quotidianità, in cui ci si "spia" o ignora apparentemente, mentre resistono le forze di un amore che è reciproco anche se, nel figlio, aperto a orizzonti che potranno farlo sentire colpevole, pur di quelle che sono vaghe noncuranze.
Moti contraddittori, spigoli, urti, ferite, autoaffermazioni-negazioni arrivano a blocchi, a macchie, a lacune, dando luogo a un procedimento mosso da vettore che porta fuori da qualunque "continuità" narrativa e che quasi costringe alla poesia ed alle sue costituzionali instabilità.
E se soltanto nella morte, nell'imperdonabile morte, si trasforma apertamente in colpa (e colpevolizzazione) l'insieme delle massime-minime distrazioni del figlio, questo a sua volta riversa su tale morte il sentimento quasi folle di un'assenza mantenuta dalla madre durante la vita. E tutto ciò solo perché la sua "divina" dignità le aveva fatto trovare un linguaggio speciale, un idioletto di gesti, parole, pause, silenzi e altri segni che circoscrivevano appunto una sua realtà e per ciò stesso negazione di simbiosi totale. Pur se di fatto lei era la dedizione totale.
La morte, per questo "imperdonabile" ma poi, nel profondo, anche perché ha presentificato il vero vuoto assoluto e l'invalicabile silenzio, solo col tempo e nel libro può venire perdonata insieme con l'inesistente colpa della madre. Il monologo-colloquio con la salma ed anche l'irruzione di elementi onirici fanno, con altri segnali, la loro parte in questo gioco di tempi inversi e di specchi ora semiopachi ora accecanti, e così l'attenzione funeraria al "materico" della morte e dei suoi riti tendono a predominare sul ricordo delle sempre rinnovate logiche di sottile e insieme brusca autoaffermazione in cui si esprime la cara mamma, la fondante Potnia.
E' possibile separare davvero questi elementi che stanno, per così dire, a presupposto del discorso poetico qui svolto, e certo ne attivano, generano il livello formale? In questo caso si può parlare di una sincronia ed omogeneità rara, e sui richiami tematici resi quasi sempre in modulazioni timbriche "secche", lontane anche dal minimo sospetto di richiami e ricatti retorici, si potrebbe sviluppare tutto un ampio discorso documentato in citazioni. Questa poesia non bara mai con i significanti e il loro possibile fascino fonico: fino ad avvicinare, senza toccarlo, il senso del prosastico inteso come "castità" dagli eccessi fonico-ritmici. Ma pur sempre, quante intersezioni, fratture, "refrain", quanti fantasmi agilissimi di strutture "musaiche" si presentano in questo libro. Se è vero che talvolta le tensioni del sentire portano ad uno smarginare nell'indeterminato (che dà poi ridotti segnali grafici qua e là) molto più accertabile è la presenza di un tessuto robusto, implacabilmente intricato e screziato ma non passibile di deviazioni nell'incoerenza. Solo un alto esercizio di indagine sul corpus operis potrebbe identificare i percorsi, le trame, gli indizi, che sembrano nudi in primo piano e invece, con o senza mots sous les mots danno quasi il senso tattile di una fitta, filamentosa carpìta, spessa coperta o carpet. E ciò senza impedire un discorso capace di creare una specie di suspense tra riottose ondate del dire e rasentate afasie: Molto scrutai nell'ombra / delle nostre passioni, degli errori / inguaribili, degli apprendimenti / così lenti che solo a grandi distanze, / nel ricordo più oscuro della vita / che già ha consumato il più di sé / si poteva afferrarne il movimento. O ancora: Io, sappilo - dici superba - / sappilo, avevo potere / di sentire ciò che volevo, perché giusto, / e del giusto avevo l'intuito oscuro / di quello che per te aveva mille nomi / e per me uno, Dio, anzi nessuno.

ANDREA ZANZOTTO
(«Poesia», 137, marzo 2000)

 

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La traduzione della poesia

…E' foltissima la sua attività di traduzione… e spazia dal mondo classico (Orazio, Marziale, Esopo, Fedro, fino ai tragici greci come Eschilo ed Euripide o lirici come Pindaro o Catullo) fino all'area contemporanea: si segnala per Adelphi la splendida traduzione di Hölderlin (1978) e una densa perlustrazione saggistica su Omero e la lingua latina uscite per Rizzoli e Mondadori.

PAOLO RUFFILLI
(Motivazione del Premio Civitanova poesia 2000, sezione Traduzione e saggistica, 5 marzo 2000)

 

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Omero: il racconto del mito

L'Iliade e l'Odissea sono una fonte inesauribile per gli studiosi d’ogni luogo e d’ogni tempo, la palestra per tesi suggestive, erudite, circostanziate... Omero è il Poeta, il Maestro, come lo chiamava Aristotele, il mare immenso dal quale tutto scaturisce in poesia, il riferimento, la possibilità infinita. Eppure ancora non v’è unanimità nel riconoscere la figura unica e impareggiabile di Omero, e grecisti anche insigni si ostinano a produrre saggi per cogliere incongruenze narrative all’interno dei poemi, disparità linguistiche e altro. La questione omerica serve spesso per dare possibilità di sfogo a coloro i quali continuano a inseguire tanti omeri. Enzo Mandruzzato, con Omero. Il racconto del mito, mette a fuoco non solo questo travagliato e infinito discorso con dottrina e comparazioni precise e puntuali, ma scioglie anche molti nodi, ironizza, evidenzia la pochezza di talune affermazioni, ribalta, senza mezzi termini, stantie credenze e acclarate posizioni, per far luce, finalmente, su un patrimonio culturale che troppo spesso ha subito manipolazioni o per eccesso di zelo o per troppo innamoramento del proprio punto di vista. Ma se Omero. Il racconto del mito fosse soltanto fatica storica e filologica, sarebbe un testo dottrinale tra i tanti. Mandruzzato non si pone dentro nessuna scia risaputa, riparte direttamente da Omero, dai testi, e li percorre in lungo e in largo per trovarvi innanzi tutto e soprattutto le ragioni della poesia... Enzo Mandruzzato ci aveva già abituato a questi suoi modi bruschi di entrare nei classici e indagarne il senso vero, basti citare Il piacere della letteratura italiana, in cui molti protagonisti vengono ridisegnati e analizzati al di fuori delle imposizioni critiche ufficiali. Adopera lo stesso metodo per questo Omero, ma poiché si tratta di materia molto lontana nel tempo, egli non trascura di rendere facile ogni approccio fino a far diventare anche la filologia un delizioso percorso e un’affascinante scoperta. Fedele al “Prologo": «L’Iliade e l’Odissea non sono solo i più antichi capolavori della poesia umana, ma anche i primi libri per ragazzi», Mandruzzato entra nel vivo di ogni singolo canto, nella psiche di ogni protagonista, nell’impianto dei poemi, e avvicina a noi un mondo che sembrava quasi un’astrazione, un documento. Gli eroi, in questo libro, non vivono separati dagli uomini e neppure gli Dei... La vita pulsa nei versi d’Omero che «ha capito il vero, fatale rapporto tra l’uomo e il Divino». Mandruzzato conclude ricordandoci “la battuta più moderna” dell’Odissea: “O Zeus Padre, davvero voi ci siete, voi Dei, nel grande Olimpo”… Omero risulta estremamente moderno perché ha saputo magistralmente affrontare temi alti e profondi con la verità dell’arte. Raramente un personaggio della forza di Achille si presenta nella pienezza della sua umanità. Dice Mandruzzato che egli «ha sfiorato troppo il Divino e non accetta la morte, questa realtà enorme e assurda. La sola vita, la vera vita è quella degli Dei. Perché neppure l’eroismo e la gloria la riscattano?». Ad Achille si affianca, in un dichiarato superamento e completamento sia poetico sia umano, Ulisse, che non si arrende alle disgrazie e combatte per arrivare a Itaca. Mandruzzato, nella sua originale interpretazione, ci ha riportato leggende, miti, poesia, svuotati del loro carico simbolico e letterario: proprio lui, che si muove facilmente e genialmente in almeno cinque letterature, ha saputo far diventare pane quotidiano e compagni di viaggio storie che sembrerebbero solo e soltanto invenzioni.

DANTE MAFFIA
(«Poesia», settembre 1998)

 

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