Il poeta e la misura.
Semantica della metrica e definizione della poesia

Padova: Panda, 2006

 

*  *  *
*  *
*

Che cos'è l'arte? E' una domanda che oggi suona ambiziosa - scardina l'equivoca debolezza di un'epoca che s'adagia sugli stenti del suo convenzionalismo distratto -, eppure è l'unica che afferri l'identità dell'uomo, il suo evento; e poiché riporta il pensiero alla sua origine, è anche l'unica che lo salvi. Come la più fondativa delle domande non può non avvalersi di una paradossale semplicità, basta saper guardare. L'Arte è l'Arte.

Ma «se l'arte è l'arte, non è qualunque altra cosa».

Con questa determinatio ex negatione Mandruzzato approfondisce la preziosa traccia di De Sanctis («Io tirava gli spiriti a guardare sotto di esse (le parole) la cosa»); la tautologia grandiosa - che l'arte è l'arte - è la cosa, la cosa del pensiero. Essa rilascia la sua potenza spirituale ad ogni pagina di questo straordinario libro dove l'Autore ci offre una scrittura dall’élan sottile, agile ma sempre avvertita, che non baratta mai l'intatta eleganza dello stile colla sovrapposizione dei significati o con un'inammissibile ansia da modernismo.

Peraltro chi lo conosce sa che II poeta e la misura l'ha scritto il suo omonimo francese (o che, per lo meno, s'è scritto da sé). Suo malgrado Mandruzzato è l’eponimo disgraziatamente isolato di un ordine intellettuale che faceva dell'onestà la misura del proprio prestigio - comunque antiaccademico. Come ogni maestro non sa mentire. L'Essai lascia che la tautologia respiri, che si disveli al suo interno - finalmente un poeta che parla di poesia (!) - rifuggendo le sovraccariche astrazioni che ammutoliscono il linguaggio nonché ogni impiegatizio strutturalismo ex post che impietrisce colla sua dottorale pedanteria la "libera necessità" del fatto poetico. Poetico perché nella tautologia poesia pensiero e arte valgono come sinonimi; quella di Mandruzzato è un'estetica che riporta all'unità il momento creativo concependolo nella sua assoluta autárkeia come principio costitutivo e formante: la poesia è come il Dio biblico, qualcosa è quando essa lo nomina. È il pensiero a scaturire l'essere.

La misura. La prima parte del testo è dedicata alla metrica, l'anima del verso. Versificare senza 'orecchio' sarebbe come pretendere di dipingere senza pigmenti e pennelli (l'ultimo, mistico Tiziano, denso e obliquo, che dipingeva con le dita, così come le Illuminations di Rimbaud, scritte in un'apparente 'prosa', non sono che la solita eccezione di conferma. Ogni bellezza estrema trasfigura la sua legge). Per questo il ritmo definisce semanticamente, è significato prima che 'forma' - chi non si rappresenta una figura umana che procombe semplicemente udendo il E caddi come corpo morto cade dantesco?

Noi pensiamo ritmicamente: il pensiero, nel suo più intimo linguaggio che precede ogni grammatikè téchne è già da sempre 'metrico'. Nella misura l'uomo accudisce il tempo, egli è come pensiero nel tempo. Fin dalle primissime pagine de II poeta tutto ciò emerge prepotentemente, ed è un'autentica rivoluzione - ci invita a un'immediata metànoia -: il ritmo è la decima 'parte del discorso '. «Non si è mai pensato e non si pensa mai neppure oggi che delle parti del discorso manca la più importante, cioè la più immediata e costitutiva, il ritmo. Appunto il verso e la metrica Noi parliamo in versi». Sono affermazioni lapalissiane, così ovvie che nessuno se ne era accorto prima. In verità l'evidenza rimane la più disattesa delle 'cartesiane divinità' perché solitamente chi scrive - contrariamente a ciò che l'Autore consiglia con instancabile fiducia (p. 139) - scrive di ciò che non conosce e che non ama, e senza paragone più di ciò che sa.

Ci troviamo di fronte a un libro dove si raccoglie una sapienza antica, pensieri che il labor limae di una vita ha digrossato dell’inessenziale sgravandoli di ogni oscurità, di ogni scorciatoia azzardata o concessione al più incantato ìdolo fori del momento. Mandruzzato, lo sguardo intriso di una purità ironica, di un'inquietudine intellettuale sempre vivissima e al vetriolo coll'ignoranza dei nuovi barbari, esalta il lettore con la sua raffinata erudizione (peraltro mai esibita e lontana da ogni dilettantismo), in un raro intreccio di esattezza e intensità concettuali che quantomai oggi ci fanno rimpiangere la più alta saggistica del secolo borghese. Per lui parlare di poesia significa parlare di sé. E si sente il vivido pathos dello studioso che prima di tutto è nato scrittore, il suo allarme discreto, allo stesso tempo incredulo e rassegnato: possibile che un'intera civiltà stia celebrando nell'indifferenza il requiem della sua bimillenaria grandezza, che abbia lasciato che tutto cadesse?

«Ma il poeta fonda ciò che resta».

(Marcello Barison)

 

*  *  *
*  *
*