Il mito di
Giambattista Vico

Vico è uno degli uomini più curiosi della storia della letteratura e della filosofia.

E' senza paragone più citato e ammirato che letto; di solito ci si limita alle parti sentenziose, come le famose "degnità" (che sarebbe la traduzione etimologica di  assioma), vivide e pregnanti nel groviglio della più stramba delle prose (cosa che può dare soggezione). Anche i contemporanei lessero e apprezzarono poco quei Principi di scienza nuova d'intorno alla comune natura delle nazioni... che pubblicò a sue spese nel 1725 e uscì definitiva nel '44; libro oscuro che provocherà una passeggera curiosità da parte dei romantici tedeschi.
Foscolo inventò una formula suggestiva: "il filosofo della storia", complementare al ricercatore, Muratori. La teoria dei "corsi e ricorsi", applicabile a tutto, è entrata nel linguaggio comune (è perciò bene vederla concretamente). Nessuno osò mai ridurne il mito, e Croce lo consacrò alla gloria avvicinandolo a sé: sarebbe stato, in quel secolo scientifico e prosaico, lo scopritore della "fantasia" - "la matta di casa", diceva Malebranche - e il rivelatore dell'autonomia di questa facoltà creatrice.

I grecisti, in particolare i giovanissimi, lo rispettano anche come iniziatore della "questione omerica", così seria per chi non ha ancora letto Omero nell'originale o almeno nella sua incomparabile poesia; ma è una calunnia, l'inesauribile "questione" è posteriore ed è di natura prettamente filologica.
Le "pruove filologiche per la discoverta del vero Omero" non valgono più di quelle filosofiche, ma sono più precise e perciò molto più insopportabili: possono provocare per il Vico un vero risentimento. E invece è così facile volergli bene, andargli vicino, leggere con semplicità, alla fine con divertimento, la sua buffa prosa.
E' la rivelazione di un uomo.

Sappiamo molto di lui perché si raccontò in un' Autobiografia in terza persona, scritta col suo solito linguaggio bislacco, ma non senza maestà. Tacque solo delle cose meno degne d'un grande, i mediocri successi, l'incomprensione per le sue scoperte, la povertà che lo afflisse, per quanto professore della Regia Università di Napoli: ma lo stipendio era scarso e aveva otto figli, uno dei quali un vero scavezzacollo, e una moglie analfabeta così inetta che il filosofo doveva supplirla nelle sue competenze donnesche. Arrotondava con lezioni private. In compenso, nell’Autobiografia, si tolse due anni.

 

Era nato nel 1668 a Napoli. A sette anni cadde battendo il capo e il medico previde, se fosse sopravvissuto, una menomazione mentale; invece gli restò solo quel caratteraccio che s'addice agli "uomini ingegnosi e profondi". Fu, racconta, precocissimo, ma di salute fragile; per questo fece per nove anni, quelli formativi, il precettore in una località solitaria del Cilento dove c'era una  biblioteca. Fu probabilmente fondamentale questa formazione di letture avide e solitarie. Libri preziosi, lacune ignote. S'appassionò degli autori latini e della maggiore poesia toscana.
Nell' Arte poetica di Orazio lesse che il poeta dev'essere prima di tutto dotato di sapientia, giudizio che prese molto sul serio, e si dedicò alla filosofia, quella che la biblioteca gli consentiva. S'innamorò di Platone. Per tutta la vita, i suoi tre classici furono Platone, Tacito e Bacone. Non si accordano molto, in verità; ma Tacito era secondo lui "mente metafisica incomparabile", l'interprete dell'uomo eterno. Detestò sempre "monsignor Delle Carte", cioè Cartesio, troppo limpido e troppo famoso. Avrebbe voluto sapere quali sono queste famose "idee chiare e distinte"; ma la sua avversione riposava su una vera incompatibilità di carattere.
Non sentiva dubbi gnoseologici; aveva la certezza del buon credente, all'antica, perché anche "i pensieri del Pascale (sic) sono pur lumi sparsi". Non cita tra i suoi libri la Bibbia perché non è un libro, è la Scrittura di Dio, da intendersi alla lettera.

Vico era il provinciale sublime, con una vocazione ostinata che cerca e trova la via di Damasco, la folgorazione da dire a tutti, all'amico colto, al barbiere, alla moglie analfabeta, per affidarla infine al proprio libro unico. Il problema del Vico era quello delle origini. Era l'etimologista grande che cercava negli antichi  testi e nelle antiche lingue le orme dei progenitori. Purtroppo non disponeva che della Bibbia e del latino, la sola lingua che conoscesse bene. Fece ricerche interessanti sull'antico diritto, nel trattato De antiquissima italorum sapientia (1710). Ma bisognava andare più in là, frugando nelle miniere del Vecchio Testamento e di Omero.
Omero lo inquietava: possibile che in tempi così antichi esistesse già quella "sapienza riposta" che ci vedeva il suo Platone? E tanti altri con lui? "Da quale scuola apprese Omero tanta arte?", si chiede nella prima stesura.

 

Ma intanto trovò il suo uomo di Neanderthal: i Giganti, attestati chiaramente nella Bibbia e confermati da molte tradizioni classiche. Non si sottovaluti la scoperta. Come avvennero? Perché?
Vico aveva lo schema della storia del genere umano nella Bibbia: sommando le lunghissime vite dei patriarchi, si arriva alla creazione di Adamo nel 2443 a.C.; poi gli uomini si moltiplicarono  fino al Diluvio che azzerò tutto, 1656 anni dopo, cioè nel 787 a.C. Si salvarono Noè e i tre figli Sem, Cam e Japhet; i discendenti del primo, cioè gli ebrei, serbarono la Scrittura e la tradizione; ma gli altri, rifugiati sulle montagne, perdettero ogni memoria della civiltà patriarcale e precipitarono nella più orrida barbarie. Gl'infanti, abbandonati dalle madri ferine, si rotolavano nelle loro feci; così, per effetto dei "sali nitri", crebbero oltre misura.

Orrendi "bestioni", veri "Polifemi", si aggiravano per la gran selva della terra, senza società e linguaggio, muti (mythus infatti è connesso con mutus)[1]. Per farli diventare umani e un po' più bassi non occorreva meno dell'aiuto della Provvidenza.
Allora immaginarono mitologie naturalistiche, forgiarono le loro lingue con radici imitative e puerili metafore, cominciarono a esprimersi col canto e, solo più tardi, col verso (degnità LXII). Così, con "la pulizia dei corpi e col timore degli Dei" (infatti politeia, la vita associata, è connessa con polire e la pulizia) la statura si normalizzò[2].

Nacque un'umanità guerriera e selvaggia, dotata di "una corpolentissima fantasia"[3].
Fu l'età degli Eroi, di Achille e di Aiace, che dominavano torme di schiavi ("famuli") e comunicavano tra loro in esametri; così trasmisero le loro conoscenze ed esperienze in una forma indifferenziata che comprendeva teologia, storia e scienza. (Quelle, s'intende, di questa civiltà).
Immenso patrimonio orale che poi venne raccolto in due poemi (a cui si associarono anche altri perduti) attribuiti a un immaginario Omero, che secondo una delle più atroci etimologie vichiane significherebbe il raccoglitore (da omoû eirein). La "corpolentissima fantasia" diede a quel linguaggio e a quei racconti tanta efficacia espressiva. Tutto il popolo greco compose e cantò i suoi poemi.

Perché, nella seconda edizione, Vico si è finalmente tolto la spina, l'aporia della "sapienza riposta". Altro che sapienza! Pura barbarie, truculenti costumi, brutali rapporti. Alla eliminazione d'un Omero evoluto e civile hanno contribuito due nozioni finora trascurate dal filosofo, quella di Giuseppe Flavio, secondo cui i greci non conoscevano la scrittura quando gli ebrei avevano già un Mosè, e quella ciceroniana secondo cui Pisistrato raccolse sparsi scritti omerici.
Non hanno valore, s'intende: Giuseppe parla ab irato di quello che nessuno sapeva, rispondendo al greco Apione, denigratore degli ebrei, e Mosè non è mai esistito come autore. L'altra si riferisce a un'edizione di testi che, come tutti i libri manoscritti di tutti i tempi, circolavano in fascicoli.
Oggi sappiamo che la scrittura è molto più antica dell'ottavo secolo, ma anche allora il semplice buon senso suggeriva che la miglior prova della scrittura è data dalla presenza stessa di quei poemi che non si potevano affidare alla memoria, sia per quantità che  per qualità.

 Dopo un'età che si potrebbe dire di Esopo, voce dei "famuli" (Vico prende alla lettera la Vita planudea e certi versi di Fedro), in cui nacque per i rapporti umani se non la prosa, un ritmo più "prosastico" come è il giambo, cominciò il tempo della ragione.
Anch'essa crebbe fino ai massimi fastigi, ma non è chiaro quando ricadde, "ri-corse", nella barbarie. Vico parla d'un periodo felice in cui sovrani cristiani difesero la Croce, ma presto si ripiombò nell'epoca "degli Dei" (Dio e i santi?), del mutismo, della gesticolazione, dei bestioni (non pare però giganteschi, i "sali nitri" questa volta non agirono).
Allora (scrive Vico all'allievo Degli Angioli), "gli uomini dovevano menar la vita nelle selve o nelle città come selve, nulla o poco tra loro e non altrimenti che per le streme necessità della vita comunicando", in un caos di linguaggi, fra tribù miste, "con germani e latini che ancora non si capivano". Le due fasi degli Dei e degli Eroi non sono chiaramente distinte, ma si va almeno dal nono secolo al dodicesimo. Quindi venne il nuovo Omero, Dante, altrettanto barbaro e altrettanto poeta.

 

Leggendo questa lettera senza venerazioni ma con la simpatia che aiuta a capire, si sente che Vico percepisce il genio di Dante e di Omero, e anche del teatro elisabettiano ("come oggi gl'inghilesi, poco ammolliti dalla dilicatezza del secolo, non si dilettano di tragedie se non abbiano dell'atroce"), come qualcosa di esplosivo, di prorompente, di irriflesso, di vergine: una forza della natura, diremmo noi. E questo lo affascina.
Si capisce che il minuetto metastasiano gli pare poca cosa; raffinato ma povero, sorvegliato, non fantastico. Se c'è del romanticismo potenziale in Vico è in questa fascinazione oscura per la poesia selvaggia. E faceva i suoi poeti ancora più selvaggi. Addirittura assenti di raziocinio, di pensiero, di civiltà: fanciulli disumani e insensibili; non il bambino che si abbandona alle fiabe, ma quello che tortura gli animali.
Ovviamente anche privi di ironia e senso della relatività, perché di queste era privo anche Vico.

 

Certo Vico è il primo che si pose il problema della storia, creazione umana e non divina come la natura (che perciò è sempre inconoscibile). Ma è storia la sua o mitologia? Se i "bestioni" anticipano, volendo, il pithecanthropus erectus, le epoche di barbarie sono state ben diverse e non sono periodiche. Identificando la fantasia con lo spirito del selvaggio, non se ne fa un "momento dello spirito", che Croce tiene bene a definire "extratemporale", ma si opera una frattura fra le due facoltà maggiori dello spirito, scienza e poesia. Sarebbe, e sarebbe stata anche allora, una scelta ben dura.
E' vero che al tempo di Vico Omero era meno apprezzato di Virgilio, e magari di Petrarca, e che nessun Romanticismo aveva ancora rivendicato all'arte tutta la sua grandezza, ma nessuno, e meno che mai un romantico, avrebbe pagato la rinascita di Omero e di Dante a prezzo della sua civiltà, modernità, anche razionalità.
Fortunatamente la teoria di Vico sbagliò. Se i suoi tempi erano, come credeva, al vertice dell'incivilimento, era imminente un altro precipizio; al contrario, ragione e fantasia, scienza e poesia cresceranno insieme per secoli, raggiungendo vette mai viste. Altro che corsi e ricorsi! Tutto è nuovo e uguale, nel mondo. Se Vico fosse stato davvero il filosofo della storia, ci avrebbe detto che la storia non si ripete mai, e che una filosofia della storia non c'è, tutt'al più può esserci il contrario.

 

Si dice che non bisogna tener conto delle "parti caduche" del sistema. Ma non si può separare questa concezione dai concetti che ne scaturiscono.
La parola "fantasia" è equivoca. Quella dell'infanzia per esempio non è fantasia, è immaginazione, inesperienza, sostanzialmente realismo. L'infante crede alla Befana ma il poeta è l'infante cresciuto che non crede più alla Befana. Il Märchen romantico è scettico; lirico, a volte ironico, commosso, felice di fantasia, ma scettico sulle fate e sui coboldi e, nel caso di Omero, su Polifemo e perfino Achille e Ulisse. Li amava, li rappresentava, ma non ne sapeva molto più di noi.
In realtà le età "raffinate" hanno poesia raffinata e le età primitive poesia primitiva; ma non disumana ed equivoca. Perché non sarebbe che un equivoco scambiare per poesia la storia e la teologia, anche se è vero che Omero credeva nel divino e pensava sostanzialmente veridica la tradizione.
Lo credeva tanto da rendercela concreta ed evidente.

A seguire passo passo, a lettura distesa l'Iliade, finite per sentire l'odore del bronzo.
Quella tremenda lotta per la palizzata, com'è militare! E quella logica fantastica, quel ritmo che fa tornare Achille al momento giusto! Tutto avviene al momento giusto. E vi sono motivi sotterranei, quasi inconsci, impossibili senza l'unità dell'opera e del genio.
Basta poco a un capolavoro: un'idea - Achille che non ammette la vita se non immortale, perché è semidivino, e preferisce la morte a una vita lunga e bella, perché per lui la vita è sempre breve, indegna di durare -, un disegno, un fatto, uomini, i grandi motivi della vita: l'odio, l'ira, la rivalità, soprattutto la morte.
C'è perfino una struttura del poema che non sarebbe difficile descrivere, fondata su ogdoadi e tetraodi.
Omero è più diamantino di Dante, dove sarebbe più facile trovare incongruenze. Per dirne una sola, Bonifacio nel canto XIX dell'Inferno è dannato e nel XX del Purgatorio è venerato. Forse il primo rapsodo è ghibellino e l'altro è guelfo? Tra Inferno e Paradiso, anche linguisticamente, non passa meno distanza che tra l'Iliade e l'Odissea, scritta secondo Vico dopo molte generazioni.

E la frantumazione della Commedia che cosa sarebbe prima di tutto, se non la distruzione del suo valore poetico? Ci perderemmo a cercare e ricomporre, senza costrutto, i frammenti. E' perciò una curiosa pretesa quella di Vico di esaltare Omero distruggendone l'unità (che avrebbe detto il suo Orazio?).

Non è necessario, per elogiare Vico, vituperare il secolo prosaico, che non fu poi solo tale. Anzi sarebbe stato forse più facile far riflettere Cartesio sui problemi della storia e dell'estetica che a Vico acquisire un po' del rasserenante buon senso di Cartesio, oltre a tutto ottimo scrittore.

 

 

[1] G. Vico, Opere filosofiche, a cura di: Badaloni e P. Cristofolini, Firenze 1971, p. 455 e altrove.
[2] Ibid. p. 475.
[3] Ibid. p.476.

 

Pubblicato in «La Nuova Tribuna Letteraria», anno XV, n. 78, 2005, pagg. 9-11