L’ultimo nostro discorso è stato in onore di Petrarca, anche per l’occasione del centenario. C’è una novità a cui forse il lettore non ha badato: è la prima volta che rivediamo e rileggiamo autori non solo non moderni, ma addirittura medioevali. E non vi pare il caso di smetterla di privilegiare i signori moderni? O addirittura contemporanei, o almeno novecenteschi? Li sentiamo così belli e in fondo nuovi? Nuovo e bello non coincidono, se non nei casi fortunati. Una miniera di nuovo è perfino l’archeologia, e l’arte classica riappare e si rivela così spesso nuova. La poesia è di ogni paese e anche di ogni tempo. Il nostro (e altrui) Medioevo è una riserva poco sfruttata di poesia e di originalità. Direi anzi che proprio da Petrarca comincia – a parte la grandezza – una poesia più antiquata che antica, più colta che veramente fantastica.
Ora presenterei come saggio tre minori del Duecento di una eleganza e di una grazia che ha sedotto i poeti più eleganti del nostro tempo, d’Annunzio o Pascoli. E di una freschezza incomparabile. E – al contrario del tempo moderno – niente di oscuro e di voluto.
(E.M.)

 Tre gioielli arcaici

 

Il Novellino o il surrealismo

 Sono cento novelle brevi e brevissime, del Duecento più delizioso (il terminus post quem pare il 1281) e nel più delizioso toscano, con interferenze intenzionali di provenzale e settentrionale. Il nome dell'autore (certo autore e non compilatore) è ignoto e anche il titolo è posteriore.

La prima impressione è quella della scrittura popolare: immediatezza, ingenuità, paratassi vistosa, ignoranza imponente (Socrate è romano, il Papirio dell'invasione dei Galli è un generale del tempo di Alessandro Magno, ecc.): ignoranza eccessiva e perciò trasparente. Fa parte del sorriso del poeta, che cancella il tempo e vuole trasmettere fatti e aneddoti memorabili nella forma perenne dell'exemplum. La verità storica sarebbe un appesantimento e quasi un inganno.

Queste novelline sembrano venire dal vuoto, le fonti anche dotte (Seneca, Ovidio, Valerio Massimo...) sembrano nascere da una sorta di dolce oblio. Nella novella XLVI si legge: Narcis fu molto buono e bellissimo Cavaliere. Un giorno avvenne ch'elli si riposava sopra una bellissima fontana; e dentro l'acqua vide l'ombra sua molto bellissima... Sappiamo il resto del mito, Narciso cadde nell'acqua e vi annegò; ma questo è classico, ovidiano, concluso. Per il Novellino è primavera, vengono donne alla fontana, vedono il bellissimo affogato, piangono disperatamente, lo tolgono dall'acqua, l'appoggiano "sì ritto" alla sponda e allora (è una specie di logica) il Dio d'Amore "ne fece nobilissimo mandorlo molto verde", il primo che fiorisce, quello che "rinnovella amore".

I motivi sono molti. C'è anche il resoconto di un grande esperimento: A uno re nacque un figliuolo: i Savi strologi providero ch'elli stesse anni dieci che non vedesse il sole... Dopo il tempo detto, lo fecero trarre fuori, e innanzi a lui fece mettere molte belle gioie e di molte belle donzelle, tutte cose nominando per nome, e dettoli le donzelle essere domòni; e poi li domandaro quale d'esse li fosse più graziosa. Rispose: i domòni. Allora lo re di ciò si meravigliò molto, dicendo: che cosa è tirannia e bellore di donna!

 Esperimenti filosofico-umani del gusto (visto da occhi popolari) di Federico II, non a caso. Federico è ricordato con grande onore, lui e i suoi. Perfino il terribile Ezzelino da Romano si direbbe in qualche modo al di là del bene e del male. Si respira ovunque un'aria ghibellina, confermata dall'assenza quasi totale di racconti pii e da un'immagine quanto mai crassa degli ecclesiastici. Non a caso figura la pagina più agnostica della letteratura medioevale, la storia dei tre anelli, che Boccaccio riprenderà con molta più perizia (Dec., I g., 3).

La grande originalità del libro, il surrealismo, serpeggia ovunque e trionfa nella novella XXI.

Il surrealismo è la scrittura del sogno. Il Medio Evo ne ha la disposizione, per difetto di prosa interiore. La stessa "visione" è un sogno; purtroppo lo frenavano, e Dante per primo cerca di dare tangibilità a un sogno gigantesco. Ma lo sfondo surreale affiora più volte in Dante, come nei canti del Paradiso Terrestre o nell'unico sogno non metafisico del poema, quello del conte Ugolino prima che la porta della torre fosse inchiodata (Inf. XXXIII 28-36): onirismo e surrealismo puro. Ma nel suo piccolo il Novellino fa di più in quella novella XXI. Federico tiene corte e innumerevoli artisti accorrono a dimostrare le loro capacità. C'erano anche tre negromanti. L'imperatore, mentre stava lavandosi le mani, li invita a dare prova di sè. Venne un acquazzone enorme e brevissimo, e forse non era chiaro se avveniva per negromanzia, ma l'imperatore invitò i negromanti a chiedere ciò che volessero. E continua: Il Conte di San Bonifazio era più presso allo Imperadore. Que' dissero: Messere, comandate a costui che venga in nostro soccorso contra li nostri nemici. Lo Imperadore li le comandò molto teneramente. Misesi il Conte in via con loro. Menârlo in una bella cittade, Cavalieri li mostraro di gran paraggio, e bel destriere e belle arme li apprestaro, e dissero: questi sono a te ubbidire. Li nemici vennero a battaglia; il Conte li sconfisse e francò lo paese. E poi ne fece tre delle battaglie ordinate in campo, vinse la terra. Diedergli moglie. Ebbe figliuoli. Dopo, molto tempo tenne la Signoria. Lasciârlo grandissimo tempo. Poi ritornaro. Il figliuolo del Conte aveva già bene quaranta anni. Il Conte era vecchio. Li maestri tornaro e dissero che voleano andare a vedere lo Imperadore e la Corte. Il Conte rispose: lo Imperio fia ora più volte mutato, le genti fiano ora tutte nuove; dove ritornerei? e' maestri dissero: noi ti volemo al postutto menare. Misersi in via. Camminaro gran tempo. Giunsero in Corte, trovaro lo Imperadore e suoi baroni ch'ancor si dava l'acqua la quale si dava quando il Conte n'andò co' maestri. Lo Imperadore li facea contare la novella; que' la contava. I' ho poi moglie, figliuoli hanno quarant'anni, tre battaglie di campo ho poi fatte; il mondo è tutto rivolto: come va questo fatto? Lo Imperadore li le fece raccontare con grandissima festa a' Baroni e a' Cavalieri.

 Dunque il Conte ha vissuto una lunga vita nello stesso tempo in cui Federico II si lavò le mani. Ognuno ha il suo tempo e si possono vivere tempi diversi. E il Conte non se n'è accorto, la sua vita è stata reale. Si è passati nel sogno - nell'incantamento - come ci si addormenta, senza cogliere l'attimo del sonno. Ma anche gli altri non se ne accorgono. Non solo, nessuno se ne stupisce. Forse lo stupore è il solo sentimento sostanzialmente assente allo stato onirico. Federico ascolta la storia con divertimento, e tutti l'accettano. Non ci sono limiti al tempo, che Talete diceva padre di tutte le cose. Si può gareggiare con Kafka in una sola pagina e con perfetta innocenza.

Folgóre da San Gimignano
o il suicidio della cavalleria

 In principio del Trecento un cavaliere detto Folgóre (cioè fulgore, molto appropriatamente: di battesimo era Giacomo) scrisse una collana di dodici sonetti intitolati ai mesi dell'anno, che formano il più delizioso monile del Medio Evo italiano (doppio, se vogliamo, perché un Cenne della Chitarra di Arezzo ne fece un degno contrappunto). Miniature dai colori smaglianti, netti e nitidi, che raffigurano le delizie che i mesi dell'anno offrono alle liete brigate del mondo (quella dei dedicatari è la più vicina ma non la sola: "Alla brigata nobile e cortese \ in tutte quelle parti dove sono...": grazioso plurale che è prosaico riferire al numero dei compagni; Folgóre pensa alle brigate che ornavano tutta la Toscana). Il freddo gennaio, per esempio, che dona? Dona il tepore dei caminetti al chiuso, mentre si gustano dolci e si gioisce di stoffe preziose; e poi

uscir di fuora alcuna volta al giorno,
gittando della neve bella e bianca
alle donzelle che saran d'intorno;
e quando la compagna
(= compagnia) fosse stanca,
a questa corte facciasi ritorno,
e sì riposi la brigata franca
.

La vista sostituisce la voce. Quelle palle di neve 'esclamano' la loro aerea, ferma, campata presenza. Così in un altro sonetto:

e piover da finestre e da balconi
in giù ghirlande ed in su melarance;

dove in alto stanno le fanciulle, dai balconi, e in basso i cavalieri, ancora a cavallo, che lanciano il frutto già sacro a Venere. Ma i frutti campeggiano, al centro.

 Così era una brigata di cavalieri, così viveva, così godeva la sua "magnificenza". L'avarizia è il vero male, spendere il bene, e, come ogni vero bene, era fine a se stesso. Una brigata di dodici giovani di Siena (non sappiamo se è la stessa di Folgóre) arrivò a dissipare 200.000 fiorini, circa una metà delle entrate annue di una città come Firenze. Dante, che aveva della proprietà il senso feudale della responsabilità, pose la dissipazione sul piano del suicidio, non senza acume. Gli era rimasto in mente il padovano Giacomo da Sant'Andrea che viaggiando sul Brenta si distraeva buttando in acqua, via via, monete d'oro (Inf. XIII).

 Erano, questi dispendiosi, eroi del gratuito. C'era spesso una "vita inimitabile". Come la poesia di Folgóre è un art pour l'art, un parnassianesimo più felice - e ne ha la caratteristica principale, la descrittività - la "costuma ricca" delle brigate era un decadentismo in chiave gotico-fiorita.

Era questa "cortesia", diceva Folgóre con fremente rimpianto. Era la vita vera del cavaliere, di cui celebra l'investitura (Sonetti del cavaliere) e per cui fa un calendario della settimana, coi tre giorni dedicati alla caccia e due ai tornei e il primo all'amore e la domenica a fare fastose visite in Firenze. Sonetti, questi, meno felici. Ancora meno quelli "politici", ma uno ce n'è straordinario, in cui, dopo la sconfitta guelfa inferta da Uguccione della Faggiuola (c. 1315), dichiara apertis verbis il suo pieno divorzio da Dio Padre. Questo Dio proteggeva il tiranno fino allo schifo, e glielo dice in faccia. Non credo che ci sia ricordo di qualcosa del genere fin dall'arcaismo greco, quando Teognide se la prende con Zeus Padre perché amministra il mondo in modo patentemente scandaloso (vv. 373-380). Sono, s'intende, le empietà della fede senza dubbi.

L'Intelligenza o il gotico fiorito

 Al novel tempo e gaio del pascore,
che fa le verdi foglie e i fior venire;
quando gli augelli fan versi d'amore,
e l'aria fresca comincia a schiarire;
le pràtora son piene di verdore
e li verzier cominciano ad aulire;
quando son dilettose le fiumane,
e son chiare sorgenti le fontane,
e la gente comincia a risbaldire;

così comincia il poemetto che ha la grazia della traduzione anonima in ottave delle Metamorfosi e più freschezza del Ninfale di Boccaccio; se ne leggono con crescente sorpresa tutte le trecento e più strofe.

Ma ottave non sono. C'è una piccola novità rivoluzionaria. Nella poesia, come nella tecnica, esistono minuzie condizionanti e geniali. All'ottava è stato aggiunto un verso che riprende la seconda rima formando una quartina e spezzando la rima baciata, che minaccia all'ottava una monotonia di cui non sempre è esente con i più grandi autori. E' la preziosa "nona rima".

 Dunque, quando più è felice primavera, appare una donna mirabile, cinta d'una corona in cui brillano sessanta pietre preziose; sono descritte e spiegate una per una. Non è un lapidario - cioè una compilazione che spiega i poteri magici delle pietre - ma sessanta piccoli capolavori di luce e aspetto sempre diversi. Poi, con un trapasso da artista nato, l'autore ci riporta alla bellissima:

savete voi ov'ella fa dimora
la donna mia? in parte d'oriente...

Del favoloso palazzo sono numerate e descritte le sale e le stanze, comprese le più umili (poi se ne capirà la ragione), come l'"ippodromio", che sarebbe il luogo delle condutture dell'acqua, e lo sgabuzzino del riscaldamento:

l'ottavo loco è termasse chiamato,
secondo lo latin delli romani,
e per volgare è stufa appellato.

Tutto il palazzo è affrescato o adorno di mosaici. In una volta grandiosa domina il Dio Amore, che regge un dardo nella destra ed è pronto a trafiggere ogni "gentil core". Attorno sono raffigurate le grandi amatrici della storia, cioè dei romanzi. Segue, per quasi metà del poema, un'immensa fuga di racconti, in gran parte dedicati al maggiore dei cavalieri, Giulio Cesàro, e ai suoi vassalli, Marcusso Antoniusso e altri di uguale desinenza. Il campione percorse molto spazio e ottenne infinite vittorie ed ebbe degni nemici, in particolare Sestusso (vulgo, Sesto Pompeo) finché "in Roma ritornò con gran burbanza": ma qui Brutto l'uccise. Segnor del mondo e fue morto sì vile:\ fortuna fu, più nol volle seguire. Seguono le storie di Alessandro Magno, di Giasone, di Troia e dei cavalieri della Tavola Rotonda. E così si è ricondotti al centro, dove sta la bellissima.

Ora la si vede in piena luce, attorniata da sette regine - le virtù - e dallo stuolo delle allegoriche "belle cameriere". A stento il visitatore esprime la sua umilissima adorazione, ma ne è ben compensato:

Allor Madonna cominciò a parlare,
con tanta soavezza, e disse allore:
hai tu sì cuor gentil potessi amare?
Quanto potrai amar, ti fo signore.

 Mai l'amore, il "poter amare", ebbe così straordinario premio; né occorrono più le terribili prove e la totale abnegazione dell'amore cavalleresco. Chi ama possiede tutto ciò che ama e solo perché ama: al lettore si fa luce. Solo l'Intelligenza ha questo privilegio, solo lo spirito possiede tutto ciò che intende. E' un modo di sentire idealistico, sia platonico che hegeliano; certo con molto meno orgoglio intellettuale e non tanta filosofia, ma con un ottimismo infinitamente superiore. Questa "intelligenza" è armonia, quella che attraverso gli angeli governa l'universo, che è creazione di Dio e perciò fa l'uomo a immagine e somiglianza di Lui e lo pone al centro del mondo, creatura prediletta dell'Intelligenza infinita, nutrita d'Amore. L'influenza, la lezione di Dante è evidente. "L'amorosa madonna Intelligenza" è un verso elegante che potrebbe anche adombrare la severa concezione dantesca.

Alla chiusa tutto è gioiosamente chiarito. Il palazzo era l'allegoria del corpo umano, con l'armonia dei suoi organi, compresa la "stufa-termesse", che è lo stomaco. Tutto è insieme provvidenziale e umano. E le lunghissime storie? Si posson dir le belle rimembranze, in sostanza Mnemosine, madre delle Muse. La sovrana Intelligenza... \ nel cospetto di Dio fa residenza \ e mai nessun piacer non le si serra.

 L'ignoto autore* aveva un gusto sovrano con cui attinge alle sue vaste letture - i francesi e i provenzali, gli stilnovisti, i Pharsalia di Lucano e molte altre - davvero come l'ape; ha la sicurezza quasi autarchica dell'artista nativo e un senso del verso e del linguaggio impagabili. Il suo lessico ottiene lo strano miracolo del termine che resta sempre attuale, anche se non più usato, antico e mai antiquato. I mezzi sono minimi e richiedono attenzione. Può bastargli un'impossibile, gustosa onomastica per legare le perle delle sue strofe preziose.

Con virtù così lievi non poté avere grande fortuna. Ma dopo sei secoli poté dare molto, o almeno una corda molto importante, alla copiosa cetra di d'Annunzio. L'Isotteo, in nona rima, è ispirato - e per riconoscenza citato - dall'Intelligenza e tutto il lessico e il sogno medioevale del poeta moderno dipendono da essa non meno che dai vertici della poesia duecentesca.

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* Per completare il titolo diciamo spesso L'Intelligenza di Dino Compagni, ma dobbiamo guardarcene. L'assurda attribuzione è dovuta alla soscrizione di un codice in cui un collaboratore dello studioso francese F.A. Ozanam (che nel 1846 curò l'editio princeps ) lesse: questa si chiama la Intelligentia... Con reagenti chimici tentò di indovinare le altre parole che sarebbero state: la qual fece ser Dino Compagni. Il trattamento ha distrutto l'intera soscrizione. ma senza danno. Anche se si lesse giusto, è impossibile che una mente realistica, moralistica e prosastica come quella del Compagni concepisse il poema forse più intrinsecamente evasivo di tutta la spesso evasiva arte italiana.

Pubblicato in «La Nuova Tribuna Letteraria», anno XIV, n. 73, 2004, pagg. 8-10

 

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