Petrarca
o la nascita segreta dell'umanesimo

 

Ammirare Petrarca

Per ammirare Petrarca in toto e toto corde bisogna essere delicati, cattolici e non troppo dotati di fantasia. Ma spieghiamoci.

Delicati e non raffinati, perchè in fatto di raffinatezza il mondo moderno è ben più complesso. Cattolici, perchè la candida religiosità di Petrarca non sembri troppo candida; e infine chi ama la fantasia avventurosa, l'estro, le posizioni estreme, non può accettare Petrarca senza mentire a se stesso. Se si è parlato di un suo romanticismo, dipende dal fatto che c'è un romanticismo autentico e ce n'è uno abusivo. Non per nulla è stato il poeta delle epoche classiciste.

Non era certo mediocre personaggio, anche se c'è del vero in ciò che scrive di sè, di avere un ingenium magis pollens dexteritate quam viribus, “intelligenza più agile che solida”, nè gli sfuggiva l'accezione di abilità che c'è in dexteritas. Sono parole della lettera scritta ai posteri, Posteritati, che è il capolavoro d'una onestà spirituale che fu una lenta conquista. Perchè se il più grande merito morale di Dante fu quello di vincere tutto per la sua arte e la sua missione, quello di Petrarca fu la resistenza - molto più difficile di quanto non sembri - all'eccesso delle lodi e dell'ammirazione.

Non si sente il suggello del genio, ma Petrarca è imprescindibile da tutta la cultura europea. Soprattutto come poeta, si pensa, e fu infatti il poeta per eccellenza fino al principio dell'Ottocento. Il Romanticismo ovviamente scoprì ed esaltò Dante e Petrarca non fu più un modello. Restò il desiderio di commuoversi, di riscoprirlo, di sentire emozioni delicate in quel giardino all'italiana, anche se piacevano solo le foreste vergini. Aiutava la sua impeccabilità; Foscolo ammirò la geniale perennità del linguaggio petrarchesco, ma sentiva che i suoi sonetti erano andati più avanti.

Quell'etа delle passioni, della metafisica e del sublime non si conciliava molto col mondo petrarchesco, ma nello stesso tempo sentiva l'uomo nuovo. Ne nacque la tesi pretestuosa dell'anima divisa tra Medio Evo e modernità, tra ascetismo e amore per il mondo; in realtà Petrarca non era affatto un'anima scissa e la sua nostalgia non era per il vecchio mondo e non amava appassionatamente la terra. Era un temperamento armonioso, che non trovava nessun contrasto tra valori diversi, cristiani e sapienziali, anzi li riteneva complementari.

 

Il ritorno delle Muse

 Petrarca fu un esule nel suo tempo, questa è la novità. Nella Posteritati lo dice con semplicissime e memorabili parole: Incubui unice, inter multa, ad notitiam vetustatis, quoniam michi semper ista displicuit: "mi sono dedicato in modo privilegiato, fra tante cose, alla conoscenza del mondo antico perchè non mi è mai piaciuta questa nostra epoca". Inter multa non significa fra tanti studi, ma fra tante cose più oziose. Da secoli e secoli ci si dichiarava disgustati del "mondo", dei mali del proprio tempo che erano sempre quelli del "mondo" - fatale espressione giovannea - ma mai si aveva condannato in tutto la propria età solo perchè era la propria; solo perchè non era la vetustas. E non si può dire che il mondo non lo ospitasse con tutti gli onori. Ma non era a casa sua.

La rivoluzione di Petrarca è in quello che non era più: teologo, aristotelico, tomista, credente mistico o credente razionalistico. Lo sentiva bene ma non poteva averne piena coscienza. Semplicemente viveva fra la sua gente, Cicerone, Virgilio, Orazio, Seneca, Livio, Agostino, e parlava o meglio scriveva la loro lingua. Non sembri poco. Petrarca non è uno dei primi conoscitori del latino vivente, è il primo e lo è in misura altissima. E sempre di più unice. Non si trattava di una conoscenza, notitia, ma di una scoperta, la categoria della storia; quel latino non più astratto e assoluto scopriva epoche, un prima e un oggi e quindi un evo “medio”, tutta una prospettiva temporale. Veniva dimenticato il fecondo, pittoresco, selvaggio astoricismo medioevale, che fa Dante sublime e straniero e quasi tutta la letteratura medioevale equivocamente gustosa, irrepetibile, deliziosa e in misure diverse ridicola. Petrarca era soffocato da questo ridicolo. Cercò, mansueto e moderato, di aggiustare, di accomodarsi, di trovare pace. Nel cristianesimo, certo. Ma non in San Tommaso, meglio Agostino. Il mondo non era male; era, più modestamente, piccolo, relativo. E poi, la Verità, era meglio viverla che indagarla.

Da giovani si può condannare la propria epoca ma non si può non viverla con la massima intensità; e Petrarca non sarebbe stato l'iniziatore dell'Umanesimo se non fosse stato artista, poeta nella sua lingua nativa. E per istinto, ambizione e ingegno voleva andare oltre, o, che è lo stesso, fare cosa nuova. I nuovi erano gli stilnovisti, con i quali ha un'affinità profonda, lo spiritualismo, e ne conosceva personalmente l'ultimo, Cino da Pistoia. Dominava l'imprescindibile personalità di Dante.

 Il confronto Dante-Petrarca oggi è inevitabile e didattico, ma per Petrarca fu vita, contrasto, incompatibilità. Oltre a tutto, Dante era sempre più celebrato e celebrato da chi disistimava - il vulgus -; e poi ne sentiva sempre parlare, anche in famiglia. Suo padre, il notaio Pietro Petracco, era stato pure lui uno degli sbanditi di Firenze del 1302. Poi si sistemò ad Arezzo, dove, nel 1304, gli nacque il figlio Francesco; a Pisa fece conoscere al bambino decenne il grand'uomo. Si trasferirà ad Avignone, nuova sede del papato e nuovo centro di affari, stabilendosi con la famiglia nella vicina Carpentras, dove affidò il ragazzo a un maestro toscano, Convenevole da Prato, che pure gli avrа parlato di Dante. Ancora di più ne avrà sentito parlare a Bologna, dove Francesco venne a studiare leggi, col fratello Gherardo, a sedici anni, e vi restò, con qualche intervallo, negli anni formativi, fino ai ventidue.

Avremmo dovuto parlare con lui per sapere come si sottrasse al prestigio di Dante; ma non ci stupisce di certo. Se proviamo a leggerne l'opera con occhi petrarcheschi, rischiamo di non accettarne che ben poco dal punto di vista espressivo. Sono due stili opposti, quello impeccabile, levigato e melodico di Petrarca e quello inesauribile, esorbitante ed espressionistico di Dante, e due uomini opposti. In sostanza quel Dante astratto, perentorio, smisurato, arcaico, dovette diventare per Petrarca una sorta di modello negativo. E non ne trascrisse mai nè acquistò l'opera. Serberà su di lui un sospetto silenzio, ma non sapremmo la verità senza una lontana lettera di Boccaccio, del '59. Il novelliere, suo adoratore, si era accorto, in una visita a Milano, che nella biblioteca del Maestro non figurava proprio Dante: gliene faceva dono, con parole ammirative che riteneva condivise. Il Maestro, ferito dal sapersi accusato dal vulgus di invidia, umiliante peccato di cui era indenne, chiarì all'amico con amarezza che solo i suoi nemici lo potevano accusare di "detestare e svalutare" il grande fiorentino. Perchè poi? Era un vecchio amico di famiglia, e nell'esilio si era mostrato inflessibile; e non ne disprezzava la poesia, ma il genere, quella poesia in volgare che restava popolare e inferiore. Certo, era stata una sua passione di gioventù, la poesia amorosa in volgare: "mi pareva la più elegante, mi avevano insegnato a non aspirare a meta più alta; però temevo, assimilando il linguaggio di questo o di un altro scrittore, di finire imitatore, data l'età portata ad ammirare chiunque". Infatti, aggiunge, nell'opera sua non ci sono tracce dantesche, se non forse casuali. Ma attualmente di poesia volgare non si occupava più, e neppure di poesia.

Figuriamoci poi come avrа giudicato il Dante latino. Un barbaro dalle idee superate e angolose. Non era presunzione, non poteva pensare altrimenti. Del resto anche il "volgo", anche la gente cambiava. L'immenso successo di Petrarca scrittore latino non è spiegabile senza un'atmosfera affine; era l'Umanesimo che nasceva, ancora senza nome e coscienza di sè, e trovava il suo autore.

 

Nel 1326 lasciò l'Italia e tornava in Provenza. Cominciarono i tre grandi lustri di esperienze, di solitudine e di battaglia. Godeva dell'ammirata, potente amicizia dei Colonna, prima di Giacomo, già compagno di studi a Bologna e vescovo di Lombez dal '30, e del fratello, l'arcivescovo Giovanni. Il 6 aprile del '27, nella Chiesa di Santa Chiara ad Avignone, ci fu la rivelazione di Laura. Non dimenticherà più la data e la coincidenza sacra, il venerdì santo. I loro rapporti esteriori sono ben poco noti; possiamo collocare in questo tempo le vicende adombrate nella canzone delle Metamorfosi di cui parleremo tra poco, quando il poeta fu "lauro" e fu "cigno". Il periodo dei viaggi, il '32-'33, potè essere anche un remedium amoris, come sarа il ritorno in Italia. Viaggiò nella Francia settentrionale, nelle Fiandre, in Germania, avido più di paesaggi e di codici che di arte e di persone. Scoprì il Pro Archia di Cicerone, come più tardi scoprirà il suo prezioso epistolario: "scoprire" significava intendere il valore e collocare criticamente testi da sempre trascurati. Amava i fiumi e i monti e i prati, sfondi della sua poesia; non il mare. La gita col fratello Gherardo sul Monte Ventoso in Provenza è la più celebre della letteratura italiana. La raccontò a un amico. Preziosa passeggiata, piena di bei simboli, con un testo delle Confessioni di Agostino che non resistette ad aprire a caso per leggervi un grande insegnamento. Appena tornato alla baita, sentì il bisogno, tutto moderno, di scrivere subito, prima che lo stato d'animo si dissolvesse. E' un latino lunare (nessuno direbbe che il suo modello ideale era Cicerone). Per dare un'idea di questo latino scritto‑parlato basta un periodo: hos inter undosi pectoris motus, sine sensu scrupulosi tramitis, ad illud hospitiolum rusticum unde ante lucem moveram, profunda nocte remeavi, et luna pernox gratum obsequium praestabat euntibus...: "tra le emozioni ondose del cuore, senza sentire la sassosità del sentiero, tornai all'alberghetto campestre da cui mi ero avviato prima dell'alba, e la luna, in veglia tutta la notte, offriva gradito servigio al nostro andare...". Osserveremo solo che trames, remeare (idea di un cammino tortuoso), pernox, con l'idea della durata (per) nella notte, non ci sono in italiano e non sono ricercati in latino, e la sintassi degli epiteti è solo latina, e tutto è pensato in un latino vivente. Da quanto tempo non avveniva?

 

Infine maturò l'ora della solitudine decisiva: ritirarsi come Zarathustra, per discendere con un annuncio. Precisamente, un poema nella lingua dell'antica poesia, con soggetto storico, altezza di argomenti e di tempi e un romanzo d'amore: l'Africa, nello sfondo della seconda guerra punica, con l'eroe perfetto, Scipione, l'eroismo e la gloria e il dramma altrettanto eroico di Sofonisba e di Massinissa, che per amore muoiono. Erano gli anni '38-'40, quando anche l'amore per Laura aveva varcato da tempo lo zenit. Allo zenit c'era il sogno della gloria: Ennio stesso, il pitagorico, profetizza a Petrarca la missione di restitutore della poesia antica: "richiamerai col tuo canto le Muse da tanto tempo esuli..." Sarà il sogno dell'Umanesimo, e questa potrebbe essere la sua data di nascita.

 Era giunto il momento dell'"amato alloro". Lo voleva nella forma tangibile dell'incoronazione poetica, che aveva avuto qualche precedente; ma Petrarca lo sperò sul Campidoglio. Intanto mosse pedine all'Universitа di Parigi e sollecitò un amico trasferitosi a Napoli; gli vennero contemporaneamente entrambi gl'inviti, da Roma e da Parigi. Petrarca domandò consiglio a Giacomo Colonna, prevedendo la risposta e per avere un avallo in più. Ma prima chiese con abile modestia d'essere esaminato a Napoli da Roberto d'Angiò, che godeva d'una immeritatissima fama di cultura. Il re invitò il poeta, ne fu conquistato, gli regalò amabilmente il "mantello d'onore" e infine a Roma, nell'aprile del '41, su un Campidoglio gotico oggi scomparso, avvenne la cerimonia. L'Africa, l'opera particolarmente premiata, non era stata compiuta e molto meno letta, tranne pochi brani in sede privata. Sulla scia del memorabile onore Petrarca si affrettò a lavorare sul poema, finchè si persuase che fosse finito. Non lo finirà mai, perchè l'aveva già consumato.

E aveva consumato le ambizioni dell'uomo medioevale, meno una: la grande tentatrice, la spiritualità. Il momento eroico dell'umanista era finito e cercava il trionfo della coscienza. Ancora una volta, favorito dalle stesse lacune della cultura del tempo, lo trovò nell'ideale della sapientia, nel suo Cicerone, in Seneca, grandi alleati di Sant’Agostino e San Paolo. Sincretismo oggi criticamente inaccettabile, ma è la condizione delle pagine migliori e più anticipatrici di Petrarca. La sua grande cultura latina era a tal punto vinta dal sentimento, che credeva all'autenticità del cosiddetto carteggio San Paolo-Seneca, un falso grottesco.

Appena tornato in Provenza scrisse il libro dei bilanci, il De secreto conflictu curarum mearum, "l'intima battaglia della mia angoscia". Il lettore moderno non vi troverà certo quello che si aspetta. E già la cornice lo deluderа: la Verità appare al poeta, a fianco di Agostino, e per tre giorni esamineranno la povera, illustre anima. Il cui male oscuro ha una bella definizione latina: un inexpletum quiddam, qualcosa di incompiuto. La causa prima, l'insufficiente meditazione della morte. Bisognava liberarsi dal quadriceps monstrum delle passioni, terrore, desiderio, dolore e gioia. Programma rigorosamente stoico.

Il secondo giorno si fa un esame di coscienza tutto cristiano, sulla falsariga dei sette peccati capitali. Di molti è reo, in particolare della sensualità e dell'"accidia", quella "malattia dell'anima" che è inimicizia e disprezzo della realtà umana, humane conditionis odium atque contemptus. Gli pare (ci sa un po' di bestemmia) d'aver ottenuto dalla vita poco e sempre con stento.

Quindi si passa, nel terzo libro e nella terza giornata, alle adamantine catene, le luminose e fortissime catene dell'amore e della gloria. La passione per Laura è nobile, ma è anche origine d'un allontanamento da Dio. Come guarirne? Con una fuga senza prospettiva di ritorno, magari in Italia. In quanto alla gloria, ha un invincibile nemico, il tempo.

Non erano gran segreti, quelli del Secretum. Per essere un libro di confessioni, manca troppo di penetrazione psicologica, di grandezza etica e di coraggio. Attraverso le flosce maglie di quella confessione teologale passano in silenzio i due figli bastardi che ebbe, l'abbandono delle madri loro e le infinite mediocrità colpevoli d'un uomo di successo. Il suo maestro Agostino aveva inventato la confessione reticente, ma almeno si confessava a Dio e non agli uomini e con ben maggiore altezza di pensiero; ma un Rousseau, un Oscar Wilde, umiliano molto questo mondo medioevale che si chiudeva nella corazza delle istituzioni. Perchè, in forma sublime, il Secretum è ancora una confessione da confessionale.

 

Aveva confessato anche i suoi piani per il futuro, e li realizzerà; intanto, tornare in Italia per dimenticare una delle catene di diamante. Non subito, solo quattro anni dopo. Proprio perchè aveva deciso di partire, lo trattenne l'esigenza dello scrivere e il gusto della solitudine. E' umano e artistico. Nel '46 scrive un De vita solitaria, lunga, armoniosa, dominata prosa latina, un vero canto alla pace. Poveri filosofi "aristotelici", che si annoiano con se stessi e il loro intellettualismo! E poveri uomini occupati, immersi nella violenza della vita pratica! Sono i figli di Caino. Felice vita di Abele, "santa, semplice, incorrotta", in cui si conversa con Dio! La vita è un fantasma e un'ombra.

La produzione latina continuerà, in versi, in prose impegnate, in centinaia di lettere spesso lunghe e ponderate, ma sempre vivaci e preziose. L'epistolario è ciò che più consigliamo di leggere del Petrarca latino, per penetrare non solo nello spirito d'un grande artista, ma anche nel costume dei suoi tempi; Petrarca era un buon narratore. Come saggista, nettamente meno, per il lettore moderno: manca di originalità, perchè la sua originalità era nella conoscenza e nell'assimilazione del mondo classico. E poi, a causa della sua voluptas scribendi, non si salva quasi mai dalla prolissità. Anche qui è l'antitesi di Dante. (In prosa volgare non scrisse assolutamente nulla, neppure le cose più prosaiche, neppure appunti e note sui suoi esperimenti di giardiniere).

Dopo il '47 viaggerà molto. La sua fama gli aprirà tutte le porte; potrà scrivere autorevolmente all'imperatore e sarà invitato dal papa; godrà di ospitalitа principesche, ma potrà dire di averci perso poco tempo e di non avere mai servito nessuno. La terza fase della vita di Petrarca dosò bene la passione della solitudine con i contatti umani; il verbo stoico, del resto, consigliava di partecipare alla vita pubblica. L'ideale della sapientia si farà sempre più operoso, sia pure sotto la cupola riposante della fede.

Ebbe i suoi scontri; il più importante, quello con quattro giovani aristotelici di Venezia che, dopo averlo intervistato, lo trovarono "un buon uomo senza cultura", sine litteris virum bonum; vincendo l'orgoglio, di cui si sente la ferita, rispose, nel De sui ipsius et multorum ignorantia, del '67, con scoperta e quasi umile sincerità, che alle loro complicatissime astrazioni (inaudite ambages) e al loro Aristotele preferiva il suo Platone, philosophie princeps, i suoi classici e Gesù Cristo, tutto un po' fideisticamente. "Una cosa è sapere e un'altra amare, una cosa è capire e un'altra volere".

Ad Arquà, dove visse gli ultimi anni ('70-'74), rivide il testamento della Posteritati e definì con commovente parsimonia quella che crediamo la sua vera gloria: "Quegli studi miei, trascurati per molti secoli, hanno destato molte intelligenze in Italia e anche fuori d'Italia: io sono forse il più anziano, fra tutti quelli che operano vicino a me, in questi studi".

 

Un cervo solitario e vago

 Il vero mistero di Petrarca è il suo amore, il più famoso amore della poesia italiana, duraturo come la vita, continuato dopo la morte dell'amata, doloroso e inebriante. Eppure, già al suo tempo, quando si parlava molto di quelle poesie e dell'ispiratrice, un amico, Giacomo Colonna, dubitava niente meno che dell'esistenza di Laura. La pensò, dato il nome, un'allegoria della gloria, del lauro.

"Magari fosse così", rispondeva il poeta, e in effetti la sua opera ci vieta un dubbio del genere. Ma Laura è sempre, più o meno, stata spiegata come un simbolo di tante cose, la bellezza, la vita, la felicitа terrena, l'eterno femminino.

E' evidente dov'è la difficoltа. L'amore è reciprocità, vicenda, un romanzo, una storia, e con Laura non c'è nulla di tutto questo. Qualcuno esclamò: "Altro che dialogo, Laura non parla mai".

Eppure di Laura abbiamo ben due frasette, ipsissima verba, a cui non si bada. Sono in una lirica trascurata che personalmente ho sempre ritenuto la più bella e la più originale del Canzoniere e forse la chiave: la XXIII. Mi dispiace non citarla per intero, e cercherò di adombrare le parti mancanti.

Nel dolce tempo de la prima etade...: è primavera, fu primavera quando la vicenda nacque. Fino allora il cuore era stato difeso da una corazza di diamante. Poi venne "una possente donna" a renderlo com'è ora, perduto, senza perdono. E fu trasformato in alloro, presso un bel fiume. Fu il tempo d'una troppo alta speranza. Allora divenne cigno. E andò vagando lungo le rive amate e chiedeva pietà con voce straniera: il solo ricordo gli fa ancora male. Molte cose avvennero. E poi, 

questa, che col mirar gli animi fura, (le anime ruba)
m'aperse il petto, e il cor prese con mano,
dicendo a me: di ciò non far parola.
Poi la rividi in altro abito sola
tal ch'io non la conobbi, o senso umano!
anzi le dissi il ver, pien di paura:
ed ella ne l'usata sua figura
tosto tornando, fecemi, oimè lasso,
d'un quasi vivo e sbigottito sasso.
Ella parlava sì turbata in vista
che tremar mi fea dentro a quella petra
udendo: Io non son forse chi tu credi.
 

Siamo, finalmente, tornati al bel modo medioevale di raccontare per immagini, frammentarie in un flusso fuso. La Donna dunque gli strappò il cuore e gli ingiunse di tacere. Poi la rivide sola e con altra veste: non la riconobbe. In termini esteriori, così in privato che non era più la dama venerabile: e qui ebbe l'ordine, il vero ordine, di non parlare. E non sappiamo di che. Occorre pensarlo? Tutto può esserci, anche, se volete, una notte d'amore. (E' vero che Laura sarа ringraziata dall'amante per la sua castità: ma chi dice che essa sia inconciliabile con una notte d'amore?) L'amato a lei disse tutto, e ne fu sgomenta e pronunciò parole infinitamente umili e realistiche: "Io non son forse chi tu credi". Nessuno saprа mai se il poeta fu minacciato da un amore inferiore al suo sogno o da un rifiuto: certo sentì nell'uno o nell'altro la morte. Poi si perdette, e lei scomparve. Un giorno si buttò a terra sull'erba, esausto. Pianse. Si piange d'amore, c'è sempre quel giorno. E lamentò per molti anni il suo folle ardimento.

Avvenne un episodio. Unico come un miracolo e bello come un mito e fu il mito di Atteone, che un giorno, cacciando, vide Diana nuda, e la Dea lo spruzzò d'acqua trasformandolo in un cervo, e i cani lo sbranarono (Ovidio, Metamorfosi. III 155-252):

 Io segui' tanto avanti il mio desire
che un dì, cacciando, sì com'io solea,
mi mossi; e quella fera bella e cruda
in una fonte ignuda
si stava, quando il sol più forte ardea.
Io, perchè d'altra vista non m'appago,
stetti a mirarla, ond'ella ebbe vergogna;
e per farne vendetta o per celarse
l'acqua nel viso con le man mi sparse.
Vero dirò (forse e' parrа menzogna)
ch'i' senti' trarmi de la propria imago
et in un cervo solitario e vago
di selva in selva ratto mi trasformo;
ed ancor dei miei can fuggo lo stormo.

 In che anno siamo giunti a questo punto della sua storia d'amore? E' una lirica antica, trascritta almeno in parte nel '56 post multos et multos annos. Non li sapeva neppure lui; forse era sui trentacinque anni. Ma importa lo stato in cui era: il Petrarca migliore, il "cervo solitario e vago", che, inseguito da fantasmi vendicatori d'una colpa innocente, che era poi solo la non-felicità, che deve pure presupporre colpe, andava "di pensiero in pensier, di monte in monte".

 

Preziosi motivi di questa lirica tornano e ritornano nel Canzoniere, ma più isolati e inspiegati; e uno particolarmente che qui è mirabile evento al centro del sogno, e altrove è fiacco. Come nella fredda e inutile poesia di Diana vista nuda. Nella celeberrima Chiare, fresche e dolci acque c'è pure il bagno di Laura-Diana: ma qui "pose le belle membra", come in una vasca da bagno. Altro che la bellissima sorpresa nel Sorga a bagnarsi, in pieno sole, tutta nel sole, l'acqua e lei, e a lui, contemplante, il grand'uomo, l'amatore illustre, non gentiluomo e non seduttore, la solitaria, tra l'irritato e il deliziato, gettò un forte spruzzo d'acqua! Simbolo, quadro, attimo unico; il luogo rimarrà sacro. Qui immaginerà l'apoteosi dell'amata, coperta da una pioggia di fiori come una Madonna. E' la più ammirata lirica di Petrarca, Chiare, fresche e dolci acque, ma non varrà mai la fantastica verità pagana dell'immersione di quel mezzogiorno.

Ma quella storia simbolica, è tutto? Sì, tutto. In questo è l'esaustiva bellezza della canzone XXIII. Ci fu solo amore, con poche cose e con un terribile e incantevole divieto. Petrarca non racconta di più perchè non ci fu nulla di più. Un tempo di privazione e perciò di dolore, ma anche di amore e perciò di gioia e di grandezza; di poesia e perciò di pienezza e di futuro. Petrarca non volle più lasciarlo. Non era un innamorato dell'amore, fu un fedele a un momento troppo intenso, alto e raro per lasciarlo perire. Non sappiamo, e neppure il poeta sapeva bene quanto durò, ma certo si trasformò e l'amata indimenticabile divenne sempre più e inavvertitamente un simbolo, cioè assimilò a sè molte altre seduzioni, tutte le bellezze del mondo. Lentamente, la "crudeltà" della donna che non accettò l'amore divenne castità e saggezza che salvarono quell'amore. Realisticamente lo salvava, perchè non poteva diventare sessualità, quotidianità e peccato. Paradossalmente, Laura finì per diventare il rifiuto dell'amore e coincidere con il distacco dal mondo. Quando Laura morì, nel 1348, Petrarca lo seppe da lontano, a Parma, e scrisse un sonetto che è una strana elegia. Evoca la sua bellezza con ammirazione più che rimpianto. La morte è un bene che anche lui si attende. La vede bella sul viso di lei, scriverà in un verso famoso dei Triumphi. Le liriche "in morte" non saranno mai disperate.

Sulla guardia del codice del suo Virgilio vergò un lungo epitafio in latino, in cui ricorda l'apparizione, la gloria, la dipartita dell'amata, con le date esatte, e aggiunge "mi è parso di dover scrivere questo per memoria dolente del fatto, con una sorta di amara dolcezza, amara quadam dulcedine... E' tempo di fuggire da Babilonia".

Perfezionò le liriche per lei, le mescolò con altre non d'amore, le chiuse tra un sonetto sulla vanità del mondo e una canzone alla Madonna, diede a tutto il filologico titolo Rerum vulgarium fragmenta, "Frammenti in volgare", e li lasciò ai posteri, perfetti, con poca fede.

 

Pubblicato in «La Nuova Tribuna Letteraria», anno XIII, n. 71, 2003, pagg. 8-9; n. 72, 2003, pagg. 12-14

 

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