Machiavelli
o la scoperta della Patria

 

Si scopre ciò che esiste già, e la Patria è una realtà così primaria che è sempre esistita. Ma non sempre è stata coscienza, passione, ideale. Questo fu per Machiavelli. Al suo tempo ci si batteva per fedeltà a una corona, per la Croce, in casi estremi per la sopravvivenza della propria città. Anche per Machiavelli la patria era Firenze, ma non solo Firenze, e quando i barbari, cioè corone ed eserciti stranieri, calpestarono gli Stati italiani, gli balenò il sogno d'una patria "italiana". Non erano tutti degeneri i suoi compatrioti, semplicemente non avevano il coraggio mentale e il radicalismo di Machiavelli; neppure Guicciardini.

 L'importanza universale di Machiavelli è nella scoperta, si dice, della politica pura, o meglio dello Stato e della coincidenza dello Stato con la Patria, ed è vero, ma non sarebbero nati questi concetti senza quello che si dirà l'amore della Patria. Lo ritrovò presso i romani antichi, ma lo imparò da se stesso e dalla sua vita.

 L'ultimo capitolo del Principe è molto di più di una chiusa eloquente. Nei Discorsi (III 41) scrive: dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione di giusto né d'ingiusto, né di pietoso né di crudele, né di laudabile né d'ignominioso, anzi seguire al tutto quel partito (scelta) che gli (le) salvi la vita e mantenghi la libertà. Sta parlando infatti di una scelta ignominiosa, quando i Romani battuti dai Sanniti preferirono l'umiliazione del giogo alla morte perché la loro morte sarebbe stata quella di Roma. I Romani del 321 a.C. furono come gli inglesi del 1940 a Dunkerque. Tutto ciò presuppone una scala di valori: l'onore è più della vita e la Patria è più dell'onore. Salus patriae suprema lex esto, era scritto nelle XII Tavole.

 Altrove ripete, non so se conoscendole, parole di Socrate: Se battere il padre e la madre è per qualunque cagione cosa nefanda, di necessità ne segue, il lacerare la patria essere cosa nefandissima, perché da lei viene "ogni tuo bene". Lo scrive a proposito di Dante, a cui non perdona il suo rancore per Firenze; per quanto ne capisse bene la grandezza, finì per trovarlo un ribelle pericoloso. Perfino la sua teoria linguistica l'attribuiva a quel rancore. La Patria non è mai matrigna, non è "noverca".

 La sua attività politica fu servizio, e scrisse i suoi capolavori, tranne poche evasioni, quando non poté più servire; né gl'importava molto sotto quale forma o quale costituzione. Divenuto un semplice privato, quando sentì imminente la rovina di tutta l'Italia insieme a quella di Firenze, si aggrappò disperatamente al poco potere dell'amico Guicciardini, supplicandolo di difendere la Patria con tutta la sua forza e il suo senno. Poco prima di morire, nel tragico 1527, scrisse al confidente Francesco Vettori: amo la patria mia più dell'anima.

 L'amore e la disperazione sono realistici, e i princìpi di Machiavelli sembreranno sempre, a freddo, pericolosissimi. Fu deprecato, condannato e letto per secoli in edizioni purgate. Nell'Inghilterra secentesca divenne il simbolo di tutti gli orrori d'un favoleggiato Rinascimento italiano e papista. Ancora nei primi anni dell'Ottocento alcune edizioni complete portano come correttivo un corredo di sentenze edificanti, estrapolate dal testo, quanto mai divertenti. Lo condannarono altare e trono. Perfino un Federico di Prussia pubblicò un Antimachiavel. Il Settecento, sebbene crudele di fondo, non ammetteva né cadaveri sulla scena né libri di Machiavelli nelle biblioteche. Gli ammiratori, come Diderot e poi Alfieri e Foscolo escogitarono la teoria secondo cui Machiavelli avrebbe voluto mostrare la natura del tiranno.

 Solo il Risorgimento lo scoprì pienamente, compensandolo di tanta incomprensione. Un grande liberale francese, Edgar Quinet, nelle sue Révolutions d'Italie (1848-52), gli dedicò pagine appassionate, salutandolo come il profeta di quella libertà dell'Italia che gli pareva - come a moltissimi liberali - un obbligo europeo; De Sanctis, con più acume critico forse, si muove sulle sue orme.

 

Nacque a Firenze nel 1469, l'anno in cui Lorenzo dei Medici cominciò il suo potere "a modo di popolo". Apparteneva alla piccola nobiltà e aveva, per il ceto e i tempi, una modesta fortuna. Sarà andato spesso nella sua villa presso San Casciano, l'Albergaccio. Lesse presto il suo grande autore, Livio, ma fu anche lui, per i tempi, come Leonardo, uomo "sanza lettere"; leggeva bene ma non scriveva il latino e ignorava il greco. Inutile dire che osservò molto Lorenzo e lo ammirò; anche in lui lascerà il ricordo d'un'epoca felice. Possiamo credere che fosse ben poco trascinato dalle idee politiche del Savonarola, che fece una costituzione di tipo veneziano tutt'altro che insensata, ma realizzò addirittura, sia pure per un breve periodo e un piccolo spazio, il sogno millenario e implicito della Chiesa, la teocrazia. Savonarola proclamò Gesù Cristo Re di Firenze, esattamente come gli zeloti ebrei di un millennio e mezzo prima riconoscevano unico e vero sovrano d'Israele Iahweh. A dispetto di tanto, Carlo VIII marciò su Napoli attraversando l'Italia e umiliando Firenze (1494). Da buon profeta, Savonarola diede la colpa a Israele, cioè ai peccati dei fiorentini, né del resto poteva darla a Gesù Cristo. Imperterrito e fedele, continuò ad accusare il papa peccatore, Alessandro VI, che gli vietò la predicazione; invano, perché la verità è verità. Ma i molti nemici del frate approfittarono di questo conflitto (effettivamente pericoloso per Firenze) per abbatterlo con un colpo di mano. Lo assalirono di notte nella sua sede legittima, il convento di San Marco, addolcito dagli affreschi dell'Angelico; Savonarola ordinò di non resistere, ma un grosso frate tedesco non si controllò, legò un archibugio al pergamo del profeta e si mise a sparare sulla folla, sottolineando ogni colpo con un biblico Salvum fac populum tuum, Domine! Savonarola s'allontanò con il crocifisso in mano; fu imprigionato e sottoposto a più processi, non meno sadici della sua esecuzione (1498).

 C'era in aria un grande bisogno di rinnovamento e quasi di redenzione. Si formò un governo che oggi diremmo moderato, che ebbe per gonfaloniere lo stimato Pier Soderini, come prima magistratura un rinnovato Consiglio dei Dieci e come segretario Niccolò Machiavelli. La sua vera vocazione si realizzava.

 E' opinione diffusa e precoce che questo segretario non fosse un gran politico; la grandezza del teorico ha spento i meriti dell'uomo pratico. Anche una novella del Bandello, non molto posteriore, ci presenta il teorico dell'arte militare incapace di ordinare una compagnia, cosa che Giovanni delle Bande Nere sbriga in un momento. Non è vero: fu un consigliere acuto e ascoltatissimo, ebbe spesso incarichi di primo piano e prodigò un'attività frenetica. Sarebbe divertente calcolare i chilometri che fece a cavallo in quei 14 anni di attività. Conobbe tutti, sovrani come Luigi XII e Massimiliano e papi come Giulio II; vide e giudicò con sicurezza molti grandi signori, a cominciare da Cesare Borgia; studiò acutamente uomini e istituzioni. Le sue relazioni sono preziose, penetranti, involontariamente bellissime. Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (1502) contiene già due grandi lezioni, quella secondo cui "gli uomini si debbono o carezzare o spegnere", e l'altra sull'"occasione", segreto dell'azione; la Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, el signor Pagolo e el duca di Gravina Orsini è minuziosa e glaciale; apparente insensibilità non dovuta all'ammirazione per il Valentino ma al disprezzo per le vittime, che non seppero morire, soprattutto quel Vitelli che, piangendo, supplicava il Borgia perché impetrasse dal papa, suo padre, l'assoluzione plenaria. I resoconti dalla Magna (Germania) e dalla Francia sono anche oggi importanti; il segreto della potenza militare del Re erano gli arruolamenti sistematici nella rete dei feudi. Machiavelli si convinse e convinse della necessità di formare truppe cittadine; ci mise l'anima ad arruolare soldati nel contadiname, ad armarli, a farne compagnie abbastanza efficienti: era felice delle sue sfilate, con truppe ben vestite, disciplinate e perfino cavalcate. Si può sorridere dei suoi libri sull'Arte della guerra, così minuziosi, e di tante fatiche, come sorrise il Bandello, ma i fiorentini erano ammirati. Né sapevano che il Segretario aveva inventato gli eserciti di oggi e soprattutto aveva capito il punto dolente della nostra tragedia nazionale. Era finita l'era non tanto degli eserciti di mestiere quanto delle vecchie guerre di parata. L'Europa e soprattutto la Francia insegnarono agli italiani che cosa è davvero una potenza militare, come la Macedonia di Filippo II lo insegnò alle poleis greche.

 Ma non erano la Macedonia di Alessandro, figlio adottivo dei greci. Francesi e Impero si combattevano e si odiavano, ma la posta era Milano e la loro influenza sulla ricca Italia, divenuta per qualche decennio il centro di tutte le ambizioni. Dopo la morte del papa Alessandro VI il figlio Cesare Borgia cadde; il nuovo papa, Giulio II, per riprendersi la Romagna occupata da Venezia e frenarne l'espansione, unì tutti i rancori contro la Serenissima, che fu battuta nel 1509. Ma poi volle regolare i conti con la Francia, alleata di Firenze. Non aveva motivi di rancore contro la vecchia città guelfa, ma il Re gliene offrì uno, un maldestro Concilio di cardinali dissidenti, da tenersi a Pisa, cioè in territorio fiorentino. La Signoria lo procrastinò e alla fine l'allontanò, ma il fantasma d'uno scisma era comparso: Giulio II proclamò una guerra-crociata per "cavare di servitù e di mano dei franzesi l'Italia". Firenze era con lui, ma ormai Giulio II aveva deciso di far tornare i Medici a Firenze, e per di più i francesi furono battuti. Da sud veniva un esercito di spagnoli, che vinse le truppe di Niccolò e assediò e saccheggiò orrendamente Prato. I sostenitori dei Medici insorsero e Pier Soderini fuggì; il Segretario fu "cassato" (novembre 1512).

 Fu il capro espiatorio. Lo si umiliò con il confino (all'Albergaccio) e in altri modi. Per sua sfortuna, ci fu una congiura antimedicea che portò a due condanne a morte e Machiavelli, per quanto estraneo, fu implicato. Subì sei tratti di corda, sufficienti per farne un invalido, ma sopportò con coraggio e senza danni. Il suo vero pensiero era Firenze. Tutti i conti erano ancora in sospeso.

 Non sapeva ancora di essere un grande scrittore e un grande teorico, ma gl'importava di agire e mettere a frutto la sua competenza. L'otium era per lui un'angoscia. Mai capolavori nasceranno più dispettosamente di quelli di Machiavelli. Si pensa che il capolavoro nasca da un raptus, in cui le notti sono brevi e le albe brucianti; invece Machiavelli per molti mesi ammazzò brutalmente il tempo. Lo racconta nella celebre lettera al Vettori, buono ma platonico amico. Si alzava all'alba, ma per occuparsi del taglio d'un bosco, vociando coi taglialegna; poi si riposava un po' e leggeva, per tornare presto "sulla strada, nell'osteria", dove giocava a carte e litigava spesso per la posta con urli e ingiurie che si sentivano chissà dove. Così, rinvolto entra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorta (sorte), sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.

 Poi continua - Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro. E, perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De principatibus; dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come e' si acquistono, come e' si mantengono, perché e' si perdono...

 Ci troviamo di fronte a due uomini: quello che s'ingaglioffa e quello che medita e studia religiosamente. Contrasto sempre ammirato. Ma sono, i due uomini, come si pensa, davvero quotidiani? Guardiamo la data: 10 dicembre 1513. In dicembre non si vive e si legge all'aperto. Dev'esserci un appiattimento di tempo, simbolico e psicologico. Il primo Machiavelli è quello che smaltisce l'ira e la disperazione, e non riesce a mettersi a lavorare prima che venga la sera. Il primo maledice la sorte punendo se stesso. Si ripulisce di una "muffa" tenace di inattività e di rancore. Poi, piano piano, senza che se ne accorga, le quattro ore di studio lo fanno libero, felice, superbo. E' troppo verosimile che le ore di raccoglimento siano diventate sempre più preziose, felici e perciò lunghe, e non solo serali, come si addice anche alla stagione. E' una caricatura di sé, ma anche una storia scorciata della pacificazione con se stesso e con la sorte. Ha scoperto se stesso: lo sentiamo che è felice. Felice di quelle letture e delle sue scritture; da quanto ci dice del contenuto del De principatibus si direbbe che avesse steso solo i primi e più caduchi capitoli del Principe, e le sue conversazioni con i grandi antichi sono il contenuto dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Il resto del Principe è forse solo nel suo spirito e lo sente già nato. E ora, in dicembre, è sempre in abiti curiali, cioè da cerimonia (è metafora, per carità!), adatti alle regge che frequenta. Sono quelle dei veri prìncipi, non di quelli del suo tempo; non la piccola gente in mezzo alla quale ha dovuto vivere ma la grande, i Romani, quelli che, si dice, idealizzava: non è vero, li restituiva alla vita e alla realtà e quindi, anche loro, alla "verità effettuale". Erano quelli gli uomini normali. Non normali erano i contemporanei, quei papi, quei profeti, quegli assassini. Non era normale essere così poco coraggiosi, poco intelligenti, poco generosi. Non era normale quel Vitellozzo Vitelli che supplicava il suo carnefice di impetrargli dal papa l'assoluzione plenaria.

***

Non trattiamo separatamente le due opere nate insieme, anche se una sola, Il Principe, è il culmine e il nodo del ferreo, coerente, sferico pensiero machiavelliano.
Presuppone solo - o impone - la conoscenza di alcuni termini fondamentali, abituali nel Cinquecento ma oggi completamente sfuocati.

 Le parole chiave

 Virtù-fortuna. Sono la virtus-fortuna o la aretè-tyche della problematica etica dell'antichità, delle scuole socratiche e in particolare di quella stoica: la Tyche è "tutto ciò che non dipende da noi" e la virtus-aretè ciò che dipende da noi, secondo la definizione di Epitteto, cioè la ratio-lógos, che appartiene alla struttura razionale dell'universo, e nell'uomo coincide con la verità e la felicità. La Tyche è il caso, l'assurdo, il male, il nulla, che la Ragione vince e vanifica. Concetti rigorosamente laici che la concezione cristiana ha superato: il Caso, che ricorda molto il "mondo" giovanneo, è stato negato nella sostanza. Un esempio è Dante, che, rettificando un suo primo pensiero, vede nella Fortuna l'intervento degli astri e perciò di entità angeliche: non c'è caso nel mondo, ma solo volontà di Dio, provvidenza.

 Niente attesta più lo spirito laico del Rinascimento, sia pure non confesso e latente, come il significato nuovo di queste due parole (se è vero ciò che dice Hippolyte Taine, che la storia di poche parole è la storia della civiltà, questo è un caso). Significati estesi. La "virtù" torna a essere la virtus, il valore: il coraggio del guerriero, l'intelligenza del politico, la perizia dell'artista (nel Vasari, normalmente), e più tardi del musicista (ancora oggi si parla di "virtuosismo"). La fortuna è ancora il caso, l'imprevedibile, nemico naturale della razionalità e del merito.

 Verità effettuale. Noi diremmo realtà (Wirklichkeit); si contrappone non a irrealtà ma a verità (Wahrheit). Certi ideali per Machiavelli sono verità: è vero che un principe deve essere leale, fa parte del concetto di principe; ma fa parte di questo concetto anche il suo fine, la ragione della sua esistenza, e questi possono contrastare con quel principio. E' una verità non imposta dall'etica o dal pensiero, ma dai fatti.

 Principe. E' termine ovvio, ma non traducibile nel linguaggio di oggi: dittatore, sovrano assoluto ecc. non corrispondono; ed era questo nella sostanza, ma come categoria, nel linguaggio machiavelliano, indica la classe politica in qualunque forma. Machiavelli non bada se mette sullo stesso piano le repubbliche, come quelle di Roma e di Venezia, e i principati, siano essi sovrani orientali, re del suo tempo e signori degli stati italiani. Va tenuta presente questa equivalenza parlando di Principe, che si sottintende virgolettato.

 Provincia. Parola amministrativa nel piccolo oggi come, in grande, nell'Impero romano, in Machiavelli rinasce come voce in apparenza geografica: la Francia, la Spagna, la "Magna", l'Italia, al di là delle situazioni politiche, sono "province". Diventeranno quelle che la rivoluzione francese chiamerà nations, parola e concetto acquisito in tutte le lingue. Machiavelli le individuava ma non disponeva che di questa antica voce classica. Alla rovescia, non era così bizzarro chiamare Gallia la Francia o "francesi" gli antichi galli. Analogamente, gli stati italiani erano "città", urbes, poleis, e tali erano in effetti Roma nell'antichità e Venezia nel Medio Evo. Non era terminologia più astratta di quella che facciamo noi che vediamo l'Impero di Roma simile agli stati burocratici di oggi.

 A proposito, non ci si domanda mai perché Machiavelli scegliesse alla sua meditazione di Livio propio la prima Deca, la più leggendaria e storicamente lacunosa. Probabilmente la Roma del IV-III secolo era già troppo grande, simile piuttosto alle nascenti monarchie europee; la sua Firenze o almeno i suoi eterni nemici erano piuttosto della misura degli oppida delle origini.

 Golpe e lione: simboli del bestiario medioevale: sono chiari anche oggi, ma il contesto linguistico, "pigliare la golpe et il lione", stare "in sul lione"(cap. XVIII) mostra come fossero categoriali. L'equivalente moderno potrebbe essere "agire sul piano dell'astuzia e su quello della violenza" e simili.

 (Lessico). Machiavelli è scrittore di vaglia; ma per sentirlo con autenticità darei il consiglio di risalire all'etimologia latina e da qui pervenire a una traduzione esatta, che è notevolmente costante, quasi tecnica. Alcuni esempi: temerità (temeritas), il contrario di ratio, è infatti l'irrazionalità, il rischio non calcolato; ordine: metodo, sistema; ordinare: organizzare; intero (integer): leale; generazione: genere, tipo, categoria; arguire (argùere): essere prova di; innovare: portare cambiamenti politici, ecc.

 Le voci antiquate e fiorentinesche non costituiscono un problema: quello che invece importa è non sfuocare mai il pensiero machiavelliano.

 Nondimanco (anche nondimeno): non è che una congiunzione, detta concessiva, che in Machiavelli assume un valore radicale: indica un modo di pensare e meriterebbe di entrare nel normale linguaggio della cultura. C'è una compresenza di principi opposti: la contraddizione o il paradosso della "realtà effettuale".

 Un'altra congiunzione è tipica di Machiavelli, la disgiuntiva o-o: solo nel primo capitolo del Principe, in una dozzina di righe, se ne contano sei. Spesso esprime l'estremismo realistico dell'uomo: "gli uomini o si carezzano o si spengono".

Il Principe

 Un principe ideale, esiste? Forse no e non ha importanza: importa il principe vero. Il quale si misura dalla sua virtù, molto più ampia di qualunque altra perché il fine del principe è il più alto in assoluto: la salvezza e l'utile dello Stato.

 Il simbolo del vero Principe è il Centauro, come insegna il mito: fu Chirone, il centauro sapiente, l'educatore di Achille, l'eroe. Constava di due nature, l'umana e la ferina. Così "ad un principe è necessario sapere bene usare la bestia e l'uomo" (cap. XVIII). Valori semantici in sostanza latini: l'inevitabilità (necesse, da ne-cedere), l'istinto e la ferocia della belva (bestia), e i valori veri, quelli propri dell'uomo. Non ne ha colpa il Principe della "verità effettuale", che si sovrappone a quella concettuale come l'essere al dover essere e come il vero fine prevale su ogni altro fine.

 Dunque il fine dello Stato è così sciagurato? Sarebbe tale se non accettassimo la vita: al contrario, l'umanità è avida, di piacere, di comodità, di denaro; sente di più "la perdita del patrimonio che la morte del padre". Questo vuole il vulgo e, si badi, nel mondo non è se non vulgo. E gli uomini di valore? Dal punto di vista dei loro interessi anche loro sono vulgo. Machiavelli non ne parla, certo, ma sapeva bene che il più astratto umanista non avrebbe mai rinunciato ai suoi otia, e solo il Centauro glieli garantisce. E chi vuole o accetta il fine deve volere e accettare i mezzi.

 La parte umana del Centauro è, deve essere seducente, quando campeggia sulla folla: giusto, leale, dotato di tutte le virtù del cavaliere. E in un mondo di buoni non occorrerebbe altro. La vita associata sarebbe un idillio; basta solo che il Principe non si faccia nemici personali desiderando la roba d'altri e la donna d'altri (siamo riportati allo Stato-cittadina, cap. XVII). Deve essere amato e un po' anche temuto; se si deve scegliere tra l'amore o il timore dei sudditi, non c'è dubbio che il timore è il più efficace. La cosa peggiore è il Principe "contennendo", cioè preso alla leggera (da contemnere, non spernere). Se "è necessitato a usare la bestia" deve usare egualmente l'astuzia e la forza, "perché il lione non si difende da' lacci, la golpe non si difende da' lupi". Ma soprattutto deve essere guerriero. Machiavelli non si stanca d'insistere sulla forza militare. e lo esalta l'energia. E' chiaro che ha visto per troppi anni, in momenti troppo decisivi, viltà, debolezza, stupidità a non finire, con infinite rovine di principi e di popoli. Perdonò al Borgia tanti delitti quando lo vide con pochi gesti energici impedire saccheggi e sedare l'anarchia in Romagna. Machiavelli ci dà una lezione impagabile: la debolezza può essere crudele e la durezza caritatevole.

 Paradossalmente, Machiavelli non pensa tanto al Principe quanto al "vulgo", che senza lo Stato è nulla. E il Principe ideale è un asceta laico che non esiste se non per lo Stato.

 Ma non può tutto, non è l'Uebermensch. La sua Virtù deve fare i conti con la Fortuna. In quale misura? molta, una buona metà; ma a Machiavelli dà fastidio che il caso possa tanto. La Fortuna deve essere un po' meno. E' donna e ama i forti.

 In ogni caso importa l'onore. La gloria meritata vale più della vita. Il coraggio riscatta non solo la sconfitta ma anche il disonore. Machiavelli ha visto con i suoi occhi il caso del Baglioni, signore di Perugia, spodestato da Giulio II. Il papa entrò senza truppe con tutti i suoi cardinali e relative salmerie, cariche di tesori. Il Baglioni, ladro, assassino e incestuoso, non cedette certo per rispetto e devozione. Che gli restava da fare? L'occasione l'aveva: acciuffare il papa (che lo meritava) con i cardinali e i tesori. Ne avrebbe acquistato una fama eterna. La gloria, anche criminale, è l'ultima chance per chi ha intrapreso la via del crimine e ha perduto. Aveva un'altra via sola, "essere al tutto buono". Due completezze.

 E la religione? E' fondamentale per la vita associata e perciò per lo Stato. Ancora una volta i Romani ne sono un esempio luminoso. La religione è innanzi tutto la categoria del "giuramento", valido nei popoli vergini anche quando è estorto: è l'estrema garanzia della fides, base del patto sociale. Volendo, è instrumentum regni, se il Principe la usa e la manovra, ma per saperlo fare deve avere almeno di questa religione l'intelligenza e la sensibilità. E può bastare.

 La religione classica è la migliore, causa prima del coraggio, della forza e del patriottismo del mondo antico. Questo perché non beatificava se non gli uomini pieni di mondana gloria, come erano capitani di eserciti e principi di repubbliche. La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha di poi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, nel dispregio delle cose umane...; la religione dell'amore fa del mondo il paradiso dei criminali (Discorsi III 2).

 Ma il cristianesimo fa parte della "verità effettuale"; e si poteva renderlo più adatto alle virtù civili (ibid.). L'aver fatto il contrario, con la corruzione e la viltà, rendendo gli italiani "senza religione e cattivi", è l'imperdonabile colpa del clero (id. I 12).

 Il Principe fu dedicato al nuovo Medici, Giuliano, non senza legittime perplessità, ma quando il debole e vanesio principe morì, poco dopo, la dedica volò al cugino Lorenzo, figlio di Piero figlio del Magnifico, giovane che prometteva molto: gli si poteva rivolgere l'appello che chiude l'opera, invocando il miracolo di fare di questa "provincia" una patria degli italiani. Sarebbe stato lui il Veltro?

 L'opera non ebbe fortuna. Ne trovarono di più i Discorsi, caldamente accolti dagli amici di casa Rucellai, quegli Orti Oricellari dove si svolsero davvero grandi, moderne e perdute conversazioni di teoria politica. Ma dai Medici non venne nessuna offerta e Machiavelli ne soffriva. In questo stato d'animo irritato nacque una commedia spietata.

 

La Mandragola

 Immaginate una foto di famiglia, magari ottocentesca: in mezzo, il signor dottore e la signora; a destra della signora il frate confessore e la suocera, a sinistra un buon amico di famiglia; ci sono anche un fedele servitore e un ospite molto servizievole. Ma al centro di tutto, guardato teneramente, un bimbo neonato.

 Bene: voi non sapete che il neonato è figlio dell'amico di famiglia, il frate ha persuaso la signora al tradimento, la suocera è pure complice, il servizievole è il cervello del fattaccio. Tutto sommato la più innocente è la signora, tra l'altro bellissima. Il marito è una vittima ingenua? No, è solo un perfetto imbecille, e un cinico che per avere quel bambino non avrebbe esitato a far morire un innocente. Eppure, adesso sono tutti felici. Questa è La Mandragola di Machiavelli. "Il retroscena".

 Ora raccontiamo questo retroscena. Un uomo ricco, visibilmente stupido e goffo, ha sposato una donna di bellezza straordinaria e di onestà non meno straordinaria: ma c'è una nube, è sterile (anzi sterile è lui). Ma lo vuole, un figlio, perché ha un cuore anche se non ha un cervello, e poi c'è un capitale e un nome da trasmettere.

 Interviene un innamorato, Callimaco, bell'uomo sui trent'anni, fiorentino, residente da venti a Parigi; proprio là ha saputo da connazionali che a Firenze c'era una donna che bastava da sola a dare la palma della bellezza alle italiane e non alle francesi. Non è il caso di tornare in patria e di vederla? Ed eccolo sotto "la cupola". La commedia si apre mentre confida la sua passione al fedele servo Siro: ha visto Madonna Lucrezia e la sua bellezza supera la fama; non può più vivere senza di lei. Ma sa anche che è onestissima. Ha capito i punti deboli della fortezza, la voglia di paternità di Nicia, la sua stupidità imponente, una madre senza scrupoli: ma come sfruttare questi punti deboli? Ci vuole il genio di Ligurio, intrinseco anche della casa di Nicia, scroccone emerito. Manda Siro a chiamarlo.

 Ligurio, dopo un tentativo che diremmo medico, utile a preparare il terreno, confida a Nicia il gran segreto: c'è una pozione a base di mandragola (radice magica, di pretesa forma umana) che dà la fecondità. Per Nicia è la felicità, ma c'è una controindicazione: il primo amplesso dopo la cura può dare la morte all'uomo, e il dottore non è un eroe. Lo entuasiasma l'idea di Ligurio di pescare un povero diavolo che faccia l'esperienza. Ma c'è un ma: Madonna Lucrezia accetterà? Bisogna puntare sul confessore, che Ligurio conosce a fondo. Con un'opulenta elemosina lo convince a tentare la sua figliola spirituale; la madre l'appoggia, per il gusto del torbido e per il vantaggio generale, e accompagna la figlia da fra' Timoteo, già preparato. La scena della persuasione è di una sobrietà grandiosa. Fra' Timoteo è serio, ha già meditato, ha consultato i testi e la sua coscienza, e non dubita: la cosa si deve fare. Madonna Lucrezia inorridisce, ma fra' Timoteo è sempre il padre spirituale, e poi sa parlare: "Madonna... e' sono molte cose che discosto paiono terribili, insopportabili, strane; e quando tu ti appressi loro, le riescono umane, sopportabili, dimestiche. E però si dice che sono maggiori li spaventi ch' e mali. E questa è una di quelle". (Sarà. Ma quei tricòla, l'aggettivazione, il tono, non sanno di manzoniano?) Adduce poi seri argomenti e sacri testi, come le figlie di Lotto, nella Bibbia, che sono incestuose sì, ma "perché la loro intenzione fu buona, non peccorno".

 E' il grande momento di Lucrezia e Callimaco; è l'ora della verità. Ligurio, consigliere machiavelliano, gli ha detto bene che deve "guadagnarsela" in quella notte e dirle tutto; e Callimaco è uomo animoso che sa rischiare. E sa "guadagnarsela". Così la natura e la verità, entrambe nude, salvano la situazione e riscattano tutto. E la famiglia è felice, come si vede nella foto.

 I personaggi sono a tutto tondo, e si possono riconoscere perfino dal linguaggio (impagabile la goffaggine di Nicia, perfino nelle sue esclamazioni: affogone! cacasangue!, che cadono al momento giusto). Callimaco ha quel tanto, quel poco di coraggio che basta, al mondo, per vincere. Ma l'indimenticabile è fra' Timoteo, caricatura severa, più efficace di quelle calunniose e pie della coeva propaganda luterana; nello stesso tempo ha le ragioni della coerenza e della complessità. Una scena estemporanea lo mostra in compagnia d'una penitente, e da lontano farebbe pensare a un'intimità spirituale: e l'intimità c'è ma d'un'oscenità insuperabile. Scena che prepara ad aspettarci tutto dal frate, e rientra nel motivo primario del "retroscena". Ma poi lo vediamo, solo con se stesso, lamentarsi sinceramente della poca devozione dei tempi perché scarseggiano le elemosine, e sente una sua tenerezza per il culto. Intanto aspetta con curiosità la fine dell'imbroglio, gli piace contemplare il mondo.

 Ligurio è un perfetto servo plautino, come lo Pseudolus, organizzatore di trame. La commedia "nuova" (Plauto e Terenzio) è ricalcata senza ombra d'imitazione; ce ne sono tutti i personaggi tipici. Ma nuova è Madonna Lucrezia. Ha l'autorità, la luce, l'innocenza della bellezza: è onesta e sincera, ma la vogliono disonesta e falsa. Si vendica diventando come la vogliono, ma resta aureolata dall'amore.

 Un intermezzo e il prologo contengono accenni autobiografici importanti. Nell'intermezzo si loda la stupidità, in questi termini:

 Quanto felice sia ciascun sel vede
chi nasce sciocco ed ogni cosa crede.
Ambizione nol preme...

 Si badi a questo cenno. Il prologo dice chiaro che scrive per consolarsi,

 ché gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altra virtue,
non sendo premio alle fatiche sue.

 Cose che non avrebbe detto pubblicamente, in una commedia rappresentata a Modena per cura del governatore Guicciardini, se non avesse saputo che la sua notorietà e il suo caso e i suoi meriti e ambizioni erano conosciute e anche riconosciute.

 

La Fortuna e il diavolo

 La Fortuna restava con Machiavelli peggio che sorda, ironica. Gli venne affidato un incarico creduto magari delicato, ma per lui, Guicciardini e noi posteri non poco comico, regolare certi affari dei frati minori di Carpi. Fu oggetto almeno di allegre risate con Guicciardini.

 Poi, gli offrirono opere d'inchiostro, le Istorie fiorentine, con un compenso modesto. Oggi risultano la prima opera storica veramente tale comparsa in Italia.

 Ultima incombenza, provvedere alle fortificazioni di Firenze dopo la sconfitta di Francesco I a Pavia (1525). Ci mise tutto se stesso.

 Questa disoccupazione è andata a vantaggio della cultura e lo sarebbe stata ben di più se Machiavelli avesse accettato di essere quello che era. Scriveva solo ad estro e di tutto. Un assaggio gli bastava. Ricordiamo solo una novella, Belfagor Arcidiavolo, una delle più geniali della letteratura italiana, ma una sola. Machiavelli ci apre un problema imbarazzante: una rondine fa primavera? Metodologicamente sì, ma di fatto non si parla di un teatro di Machiavelli né di un Machiavelli novelliere. Belfagor è un diavolo mandato in missione sulla terra per studiare le ragioni profonde per cui, come risulta dalle statistiche, gran parte dei dannati sono sposati. Belfagor sposa la migliore delle donne di Firenze e fa l'esperienza: subito quella migliore diventa così insopportabile che scappano non solo i diavoletti camuffati da servitori ma lo stesso padron di casa, inseguito però da uno stuolo di creditori. Lo salva il contadino Gianmatteo e Belfagor lo compensa facendolo grande esorcista: bastava che Belfagor entrasse in un corpo per uscirne subito agli ordini di Gianmatteo; esorcismi straordinari avvengono, ma poi Belfagor si stufa. Ma la fama dell'esorcista è ormai tale che è costretto a salvare la figlia del re di Francia; qui supplica invano Belfagor di aiutarlo ancora una volta; il diavolo non vuole uscire. Il contadino ha un'intuizione: organizza una gran processione che avanza con enorme frastuono di strumenti. Che è? "Quella è mógliata che ti viene a ritrovare!" Belfagor se la dà a gambe, "non pensando s'egli era possibile o ragionevole". E' l'ultimo colpo di genio di questa novella piena di estro. La paura non fa ragionare.

 Machiavelli è l'Euclide della politica grande, e non è più attuale quando non ci sono vere patrie, veri stati, veri uomini di stato, non c'è storia ma cronaca. Non sono idee difficili da dire, le sue, ma nessuno le ha vissute e le ha espresse con tanta intensità ed esemplarità, e pochi sanno riviverle (tra questi i maggiori uomini d'azione, da Cromwell in poi). Il temperamento ideologico, l'energia dell'espressione, martellata e definitiva, fanno pensare a Dante.

 Abbiamo tre ritratti di lui. Uno, in abiti curiali, con occhi eccezionalmente penetranti, è il Segretario fiorentino.

Un altro ha un che di burattinesco, di umorismo paesano.

Nel terzo appare disfatto, come in agonia.

Pubblicato in «La Nuova Tribuna Letteraria», n. 76, 4, 2004, pagg. 13-18

 

 

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