Guicciardini
o
il piacere di capire

Guicciardini nacque nel 1483 da famiglia agiata, nobile e di vecchio stampo, nel noto palazzo della via omonima di Firenze. La discendenza ne custodì per secoli i preziosi inediti.

 Da vivo, fu un savio e accorto cittadino, un padre di famiglia esemplare e, soprattutto, un politico di primissimo piano. Oggi è il primo uomo moderno d'Europa. Gli è caduta non la maschera, che non portò mai, ma l'ufficialità, che portò sempre. Con Machiavelli, di cui era più giovane di quattordici anni, ci fu di più che amicizia, una vera intesa. Erano entrambi immersi nella vita e inattuali; ma l'uno assomigliava ai vecchi, detestava il presente e sospirava il futuro; l'altro non sognava nulla. Vissero e soffrirono entrambi per la loro patria e furono alla fine dei vinti, travolti dai tempi. I due scrittori più universali della loro epoca, cioè di un'epoca che aveva la febbre dello scrivere e l'ambizione dell'alta scrittura, latina soprattutto, non scrissero che in italiano e solo quando non restava altro da operare e più per se stessi che per gli altri. Non si accorgevano molto della loro solitudine ma avevano del loro prossimo una meritata e meditata disistima. Sono due scrittori complementari che esauriscono la sostanza del pensiero politico. Idealmente Guicciardini è impensabile senza Machiavelli; in questo ebbe peso l'età, ma molto di più il temperamento; Machiavelli era un uomo di fede e Guicciardini no; era portato alla critica e la critica è sterile quando non ha fedi e passioni che la fanno esercitare. Era ancora più realista del teorico della "realtà effettuale", e perciò un po' meno pessimista.

 Era un perfetto fiorentino, ma lo si vedrebbe benissimo, in cilindro o in bombetta, nella City della vecchia Inghilterra. C'è da augurarsi di avere un amico come lui, e a qualunque padre consiglieremmo un genero come Guicciardini ma non come Machiavelli; inutile dire a chi dei due sarebbe meglio affidare un patrimonio.

 Tranne la Storia d'Italia, che sarebbe bastata e basta per la sua gloria, ma non vide stampata, lasciò nel cassetto, e ci restarono per secoli, i suoi scritti più personali e singolari.

 La Storia fa di Guicciardini il Tucidide d'Europa, un sorprendente scopritore del reale. Come Tucidide, può eccedere in minuzie; ma chi vuol vedere l'altra faccia dell'Italia rinascimentale deve leggerlo. Intuisce con perfetta lucidità i rapporti reali degli eventi; per opera sua ci sembra necessità quello che al suo tempo era un magma di passioni, di avidità e d'ingiustizia. E' il vero storico del presente, cioè l'uomo che ha ragione, cosa che non appassiona e non serve; e per valutarlo bene, bisogna diventargli posteri. Ha un grande stile, nobile più che impaludato, che si potrebbe definire una perfetta traduzione dal latino.

 Il libro più prezioso di Guicciardini sono i Ricordi, il primo libro "per asterischi", la prima vera raccolta di pensieri d'Europa. Nascevano via via, come appunti della sua esperienza. Sono una via di mezzo tra l'astrazione della maxime secentesca, profonda ma inutile, e la confidenza personalistica del romantico. Parla di sé e dei fatti suoi nella misura in cui hanno una rilevanza generale.

 Rivediamoli secondo la rilevanza di questa rilevanza, ma prima di tutto farei un'osservazione minore ma utile: Guicciardini sa darci consigli personalmente utili, cosa che non fa e non poteva fare Machiavelli (e neppure direi i grandi moralisti, che ci parlano sempre di quello che, secondo loro, dovremmo essere. Ciò vale anche per il nobile Marco Aurelio). Per esempio questi: state sempre vicini ai potenti, perché prima o poi, distrattamente, penseranno a voi (valeva per prìncipi e cardinali: oggi vale per un ministro o un sottosegretario o anche molto meno: magari il "Maestro" accademico: non importa se è o lo ritenete fesso, stategli vicino perché prima o poi forse vi caccia in cattedra). Un altro: non generalizzate, se siete offeso. Se un siciliano è mascalzone, non parlate male della Sicilia, ecc.: vi fate mille nemici per niente. Il più importante di tutti: non trascurate le piccole cose perché possono avere su di voi impensabili conseguenze. Se guardate acutamente la catena dei fatti della vostra vita, qualche anello decisivo può essere una piccolissima cosa.

 

-- Quale è la cosa più importante?

 Qui cascano tutti gli asini, soprattutto se intelligenti. Guicciardini no. Vi dice: la "discrezione", cioè l'arte di distinguere. Anche dei suoi pensieri dice che "sono regole, che si possono scrivere in su' libri: ma e' casi particulari, che per avere diversa ragione s'hanno a governare altrimenti, si possono male scrivere altrove che nel libro della discrezione."(I 35) Aveva già usato questa parola latina Dante, a proposito della poesia, e l'abbiamo tradotta "intuito". Qui va meglio precisato: è l'intuizione di fatti sempre irripetibili. Altrimenti non si capisce la vita. Avete indovinato che Guicciardini detesta le astrazioni: "Quanto diversa è la pratica dalla teorica!" La vita e la storia non si ripetono, e ogni evento, come ogni detto, va visto dall'interno. Raramente lo studioso ha questa intelligenza e l'uomo che vive questo coraggio.

 -- Gli uomini come sono?

 "Naturalmente inclinati al bene" ma poco coraggiosi (I 3), e l'esperienza insegna che questa buona disposizione nativa viene tradita ogni momento; "Parrà forse parola maligna o sospettosa, ma Dio volessi non fussi vera: sono più e' cattivi uomini che e' buoni, massime dove v'ha interesse di roba o di stato" (II 201). E così sono i popoli e ancora di più i politici, soprattutto se parlano di libertà: in realtà pensano solo ai loro interessi (II 66). In sostanza, ci vuole polso nei governanti. In qualunque condizione, importa essere "avvertiti e considerati" (I 25; 37). Guicciardini non dubita che il peggiore difetto d'un uomo è la leggerezza (II 167), che traduce perfettamente, in tutte le sue accezioni, la latina levitas. Significativa la differenza con Machiavelli, che vede la massima virtù nell' energia e il massimo difetto nella debolezza. Ma non dimentichiamolo, Machiavelli non parla che del Principe, Guicciardini non perde mai di vista il privato, e la sua "virtù" non è quella di obbedire o di esistere: in sostanza Guicciardini ha scoperto "il cittadino" e il buon cittadino; avverte poi i furbi che l'unico modo per sembrare galantuomini è quello di esserlo veramente. L'onestà è sicurezza. La furberia è ingenua.

 -- La "prudenza", cioè la saggezza, l'intelligenza del reale, bastano?

 No certo. Solo un pazzo può credere cha la razionalità basti. Aveva ragione Machiavelli, c'è la "virtù" ma c'è anche la "fortuna"; Machiavelli, inguaribile ottimista come tutti i troppo pessimisti, credeva che il caso, l'imprevedibile, valesse per il cinquanta per cento. Guicciardini sente che la percentuale di casi è molto più alta (I 52, 160, 170, 172; II 30, 31, 67). Quindi, fatto il nostro dovere nei riguardi della ragione, Dio ce la mandi buona (il suo Dio assomiglia molto al caso, ma non avrebbe ammesso questa illazione. De Deo nihil).

 -- Lo Stato che cosa è?

 Per Machiavelli è tutto. Per Guicciardini è la giustizia, che è più importante della libertà (I 143). Ha di regola un'origine violenta (I 95) ma stabilisce, appunto, uno "stato". Il vero senso di questa imprescindibile realtà è il "beneficio comune", l'utile (II 172).

 -- Che cos'è il bene?

 "Non nuocere ad alcuno" (II 159). Guicciardini è molto sensibile al bene perfetto, ma ha terrore della retorica e dell'impossibile. S'accontenta d'un minimo. Sa che basta e, soprattutto, che è molto.

 Religione

 Guicciardini era troppo uomo per non riflettere sul massimo dei problemi, Dio e il destino umano: soprattutto quest'ultimo. Perché e' filosofi e e' teologi e tutti gli altri che scrutano le cose sopra natura o che non si veggono, dicono mille pazzie; perché in effetto gli uomini sono al buio delle cose... (II 125) Ma non gli bastava, il "buio". Che Dio sia buio è naturale; tanto è vero che chi parla troppo di luce ringrazia sempre del bene premiato dimenticandosi di bestemmiare quando avviene il contrario. Ma l'ingiustizia della vita non significa affatto l'inesistenza di Dio (II 92).

 Ma non è tutto qui. C'è un momento di smarrimento in Guicciardini, molto implicito e pregnante, che riguarda proprio il pensiero religioso: ...la troppa religione guasta il mondo, perché effemmina gli animi, aviluppa gli uomini in mille errori, e divertisceli (= li distoglie) da molte imprese generose e virile; né voglio per questo derogare alla fede cristiana ed al culto divino, anzi confermarlo ed augumentarlo, discernendo el troppo da quello che basta, ed eccitando gli ingegni a bene considerare quello di che si debbe tenere conto, e quello che sicuramente si può sprezzare. Sconcertante. Se Guicciardini volesse una religiosità media e mediocre non vorrebbe un cristianesimo più grande. Dal cristianesimo dunque non concepiva di uscire; pensava che va scoperto, e si dirà scoperto quando ispirerà anche coraggio e grandezza civile. Sarebbe una tentazione luterana? No, Guicciardini ha visto solo gli orrori e i danni della rivoluzione protestante; certo gli sarebbe piaciuta una morale protestante che favorisce l'economia e il senso di responsabilità del cittadino, ma questo apparteneva all'avvenire. Di Lutero gli piace solo l'odio per il clero, che condivideva pienamente. Guicciardini si può dirlo il più glaciale anticlericale della storia. Basta questo giudizio: "Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e le mollizie de' preti; sì perché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sì perché ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dependente da Dio; ed ancora perché sono vizi sì contrari che non possono stare insieme se non in un subietto molto strano". E' vero che fu così a lungo al servizio della Chiesa, e certo non avrà mai fatto capire i suoi sentimenti; anzi fu un leale e prezioso collaboratore. Ma non avrebbe mai pensato di doversi giustificare di questo "doppio gioco": lui, il suo dissenso, lo pagava con la bontà del servizio. In altre parole e senza saperlo, Guicciardini ha inventato non il "doppiogiochista", che toglie, ma il "tecnico", che dà.

 La scoperta dell'individuo

 Machiavelli aveva scoperto lo Stato ma non conosce il cittadino. Qualcuno doveva scoprirlo ed era giusto che fosse Guicciardini. Non è ancora, s'intende, l'individuo come fondamento e ragione dello Stato, ciò che presuppone il concetto anglosassone di convenzione o quello di "patto sociale". Sappiamo che per Guicciardini lo Stato ha origine violenta. Ma è preoccupato per il cittadino che vale, che capisce troppo, che se ne intende più del potente e deve obbedirgli. Il cittadino-Cassandra anticipa il "genio incompreso" (oggi c'è l'intelligenza rifiutata, per stare nel sicuro). Non so se qualcuno prima di lui abbia mai osservato che nascere intelligenti è una disgrazia (II 60).

 Quando comincia la corrispondenza sopravvissuta con Machiavelli, nel '21, si conoscevano da un pezzo.

 Nel 1502, quando Machiavelli divenne il Segretario della Repubblica di Pier Soderini, Guicciardini era già stato molto notato per la sua accurata preparazione giuridica, il senno pratico, la serietà. Qualche anno dopo sposò, non senza avvedutezza, una figlia di quell'Alamanno Salviati a cui Machiavelli dedicò il primo dei suoi Decennali. Nell' '11 la Signoria lo nominò ambasciatore alla corte d'un grande diplomatico, il Re Ferdinando d'Aragona.

 L'avvento di Giulio II minacciò presto l'instabilissimo equilibrio italiano: il papa guerriero era gran revanscista ed era deciso a restaurare lo Stato pontificio; tanto per cominciare s'impadronì di Bologna, che era signoria dei Bentivoglio. Poi, per riavere la Romagna, scatenò tutti - Francia, Firenze e Napoli - contro la Serenissima, che fu battuta e tremò dalle fondamenta. Il peggio fu quando volle ripetere l'alleanza di tutti contro il Re Luigi XII, amico di Firenze, che aveva cercato di farlo deporre da un Concilio da tenersi a Pisa, cioè nello stato fiorentino. Giulio II proclamò una "guerra santa" per l'unità della Chiesa e inventò uno slogan suggestivo, "fuori i barbari!". A Mirandola si vide un papa agire da esperto comandante. Non fu facile, ma i barbari dovettero andarsene, per il momento: ma la Repubblica fiorentina aveva richiamato su di sé le ire papali e le rivendicazioni dei Medici. Il Soderini dovette fuggire e il Segretario fu deposto ed ebbe altri guai. Ancora una volta si vide la potenza della famosa Fortuna. In quel momento Guicciardini, ancora ambasciatore in Spagna, godeva di buona fama di filomediceo, e poco dopo morì Gliulio II e fu papa proprio il Medici restaurato, il figlio di Lorenzo il Magnifico, che prese il nome di Leone X. Guicciardini tornò a Firenze da gran signore ed ottenne il governatorato di Modena e poi di Reggio; poi fu presidente della Romagna, dove governò con energia.

 E' facile che cercasse di far rientrare l'amico nella vita politica, com'era utile e giusto, ma non ci riuscì neppure Machiavelli stesso che andò ad offrire il suo Principe al nuovo Medici, un Lorenzo, nipote del Magnifico. Questi amava più la caccia che la cultura e si dimenticò di leggere il libro che porta ancora la sua dedica. Otterrà invece una commissione letteraria, le Istorie fiorentine; un altro incarico, non propriamente intellettuale, fu quello di trovare un buon predicatore in un convento di frati di Carpi. Su questa memorabile incombenza le lettere tra i due grandi amici raggiungono veramente punte di alto umorismo; Machiavelli stimolava molto in Guicciardini questa qualità forse poco nativa. Quando seppe che i suoi messaggeri ufficiali procuravano all'amico un enorme prestigio e qualche manicaretto, Guicciardini gliene mandò parecchi, e mentre il destinatario stendeva le sue risposte spassose e il messaggero aspettava, i frati facevano corona, con gran rispetto, a debita distanza. Sulla loro curiosità Machiavelli lasciava cadere allusioni sibilline di alta politica.

 Intanto faceva, con lo stesso stile, utili servigi all'amico: ispezionò due ville che gli piacevano e si adoperò per trovare marito a una delle sue quattro figlie. Erano un grave pensiero, perché una dote che si rispetti non era meno di molte centinaia di milioni di oggi. Machiavelli mostrò in questi affari un inaspettato buon senso. Guicciardini a sua volta provvedeva alla delicata politica riguardante certe belle signore che stavano molto a cuore a Niccolò. Fu poi felice di fargli rappresentare a Modena la Mandragola, con un successo che preparò quello ancora maggiore di Venezia.

 Ma sull'orizzonte politico si levavano nubi più minacciose di quelle venute dalla Francia. Venivano da nord: il nuovo Imperatore, Carlo V, ereditando la Spagna, formava un Impero dove "non tramontava il sole", ma anche minacciava il tramonto degli stati europei e italiani: Machiavelli e Guicciardini non scherzarono più. Anche Clemente VII e il Re di Francia, Francesco I, erano sbigottiti. Un timore così generale non poteva non essere giustificato; la sola presenza delle agguerritissime truppe spagnole cambiava la situazione. Parve una provvidenza, anche al papa, l'avanzata dei Turchi nel cuore dell'Ungheria, e Francesco I tentò tutto per tutto: affrontò gl'imperiali con tutte le sue forze ma subì a Pavia la memorabile disfatta. Agli stati italiani, Firenze per prima, non restava che sperare in Dio, nell'astuzia e nel coraggio. Il papa puntò su Giovanni delle Bande Nere e tesseva complotti fragili e sfortunati. Carlo V, dopo aver fermato i Turchi, non impedì che un'orda di Lanzichenecchi luterani si lanciasse alla volta di Roma.

Ma Firenze ritrovò tutta la sua fierezza: scacciò i Medici, mandò al diavolo Guicciardini, si fortificò freneticamente; anche Machiavelli non pensava ad altro. Spedì all'amico le sue ultime, lucide, ardenti lettere, e nell'ultima lo invocava di salvare l'Italia e di "estirpare queste belve selvagge che di umano non hanno che l'aspetto e la voce". Lo scrisse in latino. Ma i Lanzi batterono Giovanni delle Bande Nere, entrarono in Roma, compirono il famoso "sacco", mentre i prelati, irosi e atterriti, si serravano nella città leonina. Da Castel Sant'Angelo Benvenuto Cellini maneggiava allegramente sui tedeschi la sua micidiale colubrina. Era il 1527; ora Machiavelli morì.

 Il Papa e l'Imperatore, entrambi minacciati dalla rivoluzione luterana, fecero la cosa più conveniente: la pace, anzi l'alleanza. Il papa avrebbe incoronato l'Imperatore e questi avrebbe imposto il ritorno dei Medici: ormai era il padrone, ma capiva che nell'avvenire il papato sarebbe stato l'alleato naturale. Finiva un'epoca.

 Ma prima ci volle un gesto, c'è una logica che lo vuole. Firenze, stremata, offrì un eroe, Francesco Ferrucci, che tentò una diversione, fu battuto e cadde sul campo. Tutto ciò fu raccontato e romanzato, ma lo meritava, anzi avrebbe meritato di essere romanzato meglio. Nel 1530 tutto era compiuto.

 Guicciardini si era rifugiato nella sua villa di Finocchieto, in una situazione analoga a quella di Machiavelli molti anni prima. Pensò, scrisse, soprattutto la Storia, meditò. Con il ritorno dei Medici la situazione si capovolgeva e Guicciardini riprese la sua collaborazione, molto fortunosa; finalmente poté ritirarsi in villa e dedicarsi a quella che è al di sopra della Fortuna: la Verità. Capire era sempre stata la sua vera vocazione, distratta dalla vita. La Storia (su cui lavorò fino alla morte, 1540) lo aiutò a chiarire e accettare il paradosso di tanti eventi. E sentì il bisogno di rispondere all'amico morto, di ritrovarsi con lui sulla strada del capire. Ne rilesse l'opera e stese le Considerazioni sui Discorsi di Machiavelli. Naturalmente metterà anche queste nel cassetto. La verità è così, una cosa che è in se stessa.

 Passò in rassegna quasi tutto il primo libro, capitolo per capitolo, e parte degli altri due; deve trattarsi d'un lavoro incompiuto. E' difficile pensare che non volesse, o meglio riuscisse, a non rimeditare tutto il pensiero di Machiavelli, il Principe in particolare. Non so perché tacque su certi capitoli scottanti, come quelli della religione antica. Risponde subito su cose più pratiche e anche qui spicca il suo modo di vedere. Per esempio Machiavelli si domanda se è meglio guidare truppe con una disciplina di ferro o con umanità, ponendosi solo dal punto di vista del comandante; Guicciardini pensa anche all'altra parte: dipende dal temperamento della truppa, e cita il Barbarossa, il quale diceva che con i tedeschi conviene la durezza perché scambiano l'umanità per debolezza, con gl'italiani conviene l'umanità.

 Per la "considerazione" più famosa (sul cap. XII del I libro) bisogna ricordare le circostanze diverse in cui fu scritta. Riguarda il sogno machiavelliano dell'unità nazionale, e Guicciardini sa ormai dolorosamente come questo fosse impossibile. Forse la sua saggezza lo consola. Le Italie non possono essere conglobate da un'unica corona. E' vero che il papato l'ha sempre impedito, ma è anche vero che il frammentarismo, "per qualche fato d'Italia o per la complessione degli uomini temperata in modo che hanno ingegno e forze", è connaturato con la nostra storia fin dall'antichità: Roma sola e con grande fatica dominò queste irriducibili póleis. Non sarebbe stata la nostra fortuna, non ci sarebbero state cioè "tante città floride". Vi è implicito un grande concetto, che le cause della grandezza e della rovina, negli stati e negli uomini, sono le stesse.

Guicciardini sotto accusa

 I due amici grandi e complementari furono separati dalla posterità. Per secoli uno fu deprecato e l'altro poco conosciuto, e nell'età risorgimentale il primo fu esaltato e il secondo condannato come il suo opposto. I due maggiori esponenti di questi giudizi furono Edgard Quinet, socialista e rivoluzionario, che scrisse le Révolutions d'Italie negli anni che prepararono il '48, e Francesco De Sanctis, molto più tardi ma con lo stesso cuore (L'uomo del Guicciardini, '68). Perché si trattava di cuore.

 Quinet non sopportava un'Italia morta e sepolta, come tutta l'Europa non aveva ammesso una Grecia schiava dei Turchi; e vide in Guicciardini l'uomo che non mosse un dito per salvare l'Italia dalla servitù, anzi, mentre s'impaludava nel suo linguaggio, "dalle pieghe maestose", dava una mano all'invasore. Personaggio da basso Impero, soprattutto come l'immaginava il suo secolo.

 De Sanctis fu meno eloquente, ma non meno severo. Guicciardini - o almeno il suo ideale del "savio", ma la differenza non è molta - fu per lui il simbolo di quegli atteggiamenti morali che sono stati (e potevano ancora essere) la causa della rovina d'Italia e di tutte le civiltà troppo mature: l'individualismo ("il particulare mio") e l'astuzia che si crede vincitrice. "L'Italia perì - scrive - perché i pazzi furono pochissimi e i più erano i savii... L'ideale non era più Farinata, erano i Medici; e lo scrittore di questi tempi non era Dante, era Francesco Guicciardini". Conclude che "un individuo simile al nostro savio può forse vivere; una società non può".

 Abbiamo già visto che Guicciardini era un altro uomo e che la situazione era senza vie d'uscita; in realtà tutti i Farinata - come Ferrucci - e tutta l'Italia perdette. Ma la parte positiva del celebre saggio desanctisiano riscatta quella negativa. E c'è un concetto così vero e così universale che non dobbiamo più dimenticarlo: "L'individualismo è ingenuo".

 

Pubblicato in «La Nuova Tribuna Letteraria», n. 77, 1, 2005, pagg. 9-12