Benvenuto Cellini, Se potessimo rivedere una città antica rimarremmo stupiti dell'abbondanza dei colonnati e della fusione della città col paesaggio; ma non meno di quello che non si vede più, l'abbondanza e la bellezza delle statue. Un viaggiatore antico dice che Roma aveva il doppio dei suoi abitanti, contando le immagini -a livello terra- dei vecchi concittadini. Il ristoro delle immagini en plein air si respira in un angolo
del nostro mondo, la Piazza della Signoria a Firenze, col suo Davide, il Perseo,
il "biancone" e molte "anticaglie". Fece di tutto per dargli vita: regalò il suo costoso Crocifisso di marmo (oggi a Madrid) ai Duchi, chiese almeno un concorso pubblico, arrivò a proporre di non avere compenso se non superava Michelangelo, ma la Duchessa non volle saperne. Tutto per una collana di perle, che aveva desiderato in regalo dal Duca con la complicità, mal riuscita, di Cellini. Da allora i rivali, tra cui l'Ammannati e Bandinelli, prevalsero. E l'ultima (e prima) gloria pubblica di Cellini rimase il Perseo. Ma era stato un gran giorno, quello in cui il Perseo fu
"scoperto"; dal pubblico si levò un urlo di ammirazione. Fu un evento simile a
certe "prime" dei grandi compositori dell'Ottocento. Tutti accorrevano ad
ammirare l'opera, l'autore divenne di colpo popolare e la sua faccia -senza i
rotocalchi- familiare; statua e Loggia furono coperti di foglietti con versi
ammirativi, anche greci e latini. Durante la battaglia per il Nettuno, qualche anno dopo,
Cellini scrisse la sua autobiografia, interrotta con il '62. Visse ancora altri
nove anni, piuttosto tristi e delusi, in cui stese i trattati Dell'oreficeria
e Della scultura, pubblicati in vita. Giorgio Vasari, amico dei nemici, da Cellini chiamato
"Giorgetto", non inserì la sua tra le vite degli "eccellenti", pur stendendo
quelle dell' Ammannati e del Bandinelli, e si limitò a dare di straforo questa
sintesi: animoso, fiero, vivace, prontissimo e terribilissimo, e persona che
ha saputo pur troppo (anche troppo) dire il fatto suo a' Prìncipi.
Benvenuto Cellini nacque nel 1500, da vecchia famiglia artigiana, di cui era orgoglioso, a Firenze, che amava non solo come la sua patria, ma come "la Scuola di tutte le virtù". Andò presto e per vocazione a bottega di oreficeria, come molti grandi artisti, esempio che incoraggiò il suo ingegno e le sue ambizioni; alle quali restò sempre fedele, sostenendo una vera lotta contro l'ambizione patema, che ambiva a fare di lui non un mercante o un giurista ma un suonatore di piffero. Effettivamente Cellini ne aveva talento ed era arte apprezzatissima. La vinse Benvenuto, ma per il padre fu un dolore mortale.
A diciannove anni andò nell'inevitabile Roma, sempre a bottega. Lavorava,
amoreggiava, vociava, litigava con puntigliosa irruenza e maneggiava bene le
armi. Un ottimo "scoppietto" se l'era fatto con le sue mani. Noi, figli di Stati
di diritto decaduti a Stati burocratici, concepiamo la violenza limitata a certi
spazi e ceti più o meno marginali, ma allora era normale. Si andava sempre
armati, si battagliava per poco e la faida era addirittura d'obbligo. Clemente VII, soddisfatto delle medaglie di Cellini, lo aveva nominato "maestro" della zecca pontificia con lo stipendio discreto di sei scudi mensili. Benvenuto venerava il Vicario di Cristo e questi adorava l'arte di Benvenuto: due valori e dignità diverse che s'integravano e di fatto si pareggiavano. Alla vista delle sue monete, il papa esclamò: "gli antichi non furno mai sì ben serviti di medaglie". Si sentivano ancora nell'Impero di Roma.
Questa idillica normalità fu guastata, più che dalla rivoluzione protestante,
bene o male lontana e affidata a chi di dovere, dall'invasione dei
Lanzichenecchi del Borbone. Cellini combatté come cannoniere. Dalla terrazza di
Castel Sant'Angelo maneggiava la sua colubrina con molto gusto. Un giorno vide
un ufficiale appoggiato alla spada in posa spagnolesca, credendosi fuori tiro:
Benvenuto studiò bene la traiettoria e fece centro "rompendolo in due". Ma lo
spostamento d'aria, causato da una carica esuberante, fece piombare un barile di
sassi sulla terrazza dove due cardinali stavano altercando, incolpandosi
reciprocamente del disastro, e per poco non furono "stiacciati tutti dua".
Tutto passò, anche il papa. Paolo III non fu meno di Clemente estimatore
dell'artista: a certi calunniatori ammonì: "Voi non la sapete bene sì come
me. Sappiate che gli uomini come Benvenuto, unici nella lor professione, non
hanno da essere ubrigati (obbligati) alla legge."
Aiutarono il compimento del miracolo l'intemperanza e la cattiva digestione del
papa. Era un buongustaio, cosa che scontava con un vomito regolare. Un giorno
era venuto a trovarlo il cardinale Ippolito d'Este (di cui quello dell' Ariosto
era zio), e cenarono insieme. Al momento del vomito l'ospite chiese grazia per
Cellini e l'ottenne subito. Dopo di che, il cardinale e il miracolato partirono
per la Francia, ospiti di Francesco I, a cui Cellini piacque molto anche come
Gli regalò un castelletto per poter lavorare; il re capiva il suo valore anche se l'artista non capiva del tutto che un re, in guerra contemporaneamente con Carlo V e gli inglesi, non poteva pensare solo alle opere d'un artista. Le quali furono molte, non solo di oreficeria (famosa la saliera, oggi a Vienna), ma molte statue e infine un vero e proprio colosso di una dozzina di metri. Non fu terminato e non si sa bene il perché, né che fine abbia fatto. Le disavventure di Cellini in Francia furono molte e rumorose; si sentiva sempre più perseguitato dalle "avverse stelle". Aveva invece una rara abilità a recare danno a se stesso, anche per due nobili ragioni, la fierezza dell'artista e l'amore per l'arte. Nel '46 tornò in Italia, un po' per i maneggi dei soliti traditori, un po' per aiutare la sorella e i nipotini e soprattutto per nostalgia. Sappiamo come amasse quella "Scuola di tutte le virtù", ma sospirerà molto il re di Francia, soldatesco e cordiale.
A Firenze era signore Cosimo I dei Medici, che lo assunse ai suoi servizi. Non
erano adatti a capirsi, perché il Duca e la sua famiglia erano già una famiglia
ricca di oggi. C'erano parzialità meschine, coll'aggravante che il Duca si
credeva grande intendente d'arte perché grande dilettante. Nascevano
discussioni. Una volta il Duca, piccato di sentire dubitare della sua perizia,
la proclamò come un ordine: "Sì, ma da Principe, non da artista", cercò
di spiegare Benvenuto, cioè da persona istruita ma non del mestiere.
A conti fatti Cellini aveva ucciso tre uomini (a parte gli
scontri più precisamente militari, di cui aveva ricevuto assoluzione
preventiva), commesso normali e perciò non calcolabili peccati carnali e
lasciati non pochi figli bastardi; con questo non aveva mai dubitato di Dio
Padre, della sua protezione e della sua approvazione per le sempre giuste
vendette; anzi in qualche caso le aveva fatte al posto suo. L'aveva sempre
soccorso nei momenti estremi e aiutato perfino nella drammatica fusione del
Perseo (cosciente della sua empiria tecnica, attribuiva la riuscita,
onestamente, a un miracolo).
Questa mia Vita travagliata io scrivo Il demoniaco non gli faceva nessuna paura. Anzi, una volta fece un esperimento con un negromante, nel selvaggio Colosseo, dove furono evocate torme di spiriti maligni, e ci volle del bello e del buono per dissiparli; alcuni lo seguirono sui comicioni delle case fino alla sua porta. Anche nel suo castelletto in Francia ce n'era uno di cui non si preoccupava.
A posto con l'Oltremondo, nel mondo importava l'arte, anzi la "virtù", il
valore. Virtù e virtuoso sono le grandi parole del libro. "Virtuoso"
sostantivato era ogni uomo di valore, e perfino una singola opera d'arte poteva
essere una "virtù". Un festino tra artisti, in compagnia delle relative
fanciulle (dette in gergo "cornacchie"), era una "virtuosa cena". Un discorso
forbito, con un bel portamento dell' oratore, erano, tutto insieme, "virtuose
parole" (II 2). Quella che noi diremmo fantasia e genialità erano i "virtuosi
concetti" (II 22).
Cellini scrive nell'italiano più naturale e meno purista
del secolo; cioè nella sua lingua nativa, che riteneva semplicemente normale.
Certa critica più recente mette in dubbio questa impressione, che è stata la
prima e la più immediata, dal Baretti al De Sanctis, ed è ancora deliziosamente
evidente. Non mancano neppure gli errori e le oscurità del toscano parlato, i
suoi pronomi ancora vivi:
Cellini scrive fisunnumìa e simitrìa, si vede quanto il latino ha
contribuito, almeno nel lessico colto, all'italiano. Sarebbe, in termini
Nessun libro come la Vita di Cellini raffigura la realtà
del tempo, ed è il solo di quella grande epoca che si legga con vero
divertimento; merita la sua enorme popolarità fuori d'Italia, che risale ancora
a Goethe, uno dei suoi numerosi traduttori.
Pubblicato in «La Nuova Tribuna Letteraria», anno XIV, n. 75, 2004, pagg. 8-10 |