Benvenuto Cellini,
quasi un superuomo

Se potessimo rivedere una città antica rimarremmo stupiti dell'abbondanza dei colonnati e della fusione della città col paesaggio; ma non meno di quello che non si vede più, l'abbondanza e la bellezza delle statue. Un viaggiatore antico dice che Roma aveva il doppio dei suoi abitanti, contando le immagini -a livello terra- dei vecchi concittadini.

Il ristoro delle immagini en plein air si respira in un angolo del nostro mondo, la Piazza della Signoria a Firenze, col suo Davide, il Perseo, il "biancone" e molte "anticaglie".
Un simbolo del Rinascimento: la bellezza aboliva la storia, le statue classiche non valevano come reperti, ed erano assimilate alle "moderne". La stonatura dell' Ammannati era stata prevista da Cellini: era il suo sogno quel Nettuno, lo vedeva già, in quel bel blocco di marmo di cui parla con tenerezza (II 99).

Fece di tutto per dargli vita: regalò il suo costoso Crocifisso di marmo (oggi a Madrid) ai Duchi, chiese almeno un concorso pubblico, arrivò a proporre di non avere compenso se non superava Michelangelo, ma la Duchessa non volle saperne. Tutto per una collana di perle, che aveva desiderato in regalo dal Duca con la complicità, mal riuscita, di Cellini. Da allora i rivali, tra cui l'Ammannati e Bandinelli, prevalsero. E l'ultima (e prima) gloria pubblica di Cellini rimase il Perseo.

Ma era stato un gran giorno, quello in cui il Perseo fu "scoperto"; dal pubblico si levò un urlo di ammirazione. Fu un evento simile a certe "prime" dei grandi compositori dell'Ottocento. Tutti accorrevano ad ammirare l'opera, l'autore divenne di colpo popolare e la sua faccia -senza i rotocalchi- familiare; statua e Loggia furono coperti di foglietti con versi ammirativi, anche greci e latini.
Il Duca Cosimo, alla finestra del Palazzo-Reggia, era raggiante; promise mirabilia ma non pagò, se non a rate e in piccola parte. Quell' anno felice era il 1554.

Durante la battaglia per il Nettuno, qualche anno dopo, Cellini scrisse la sua autobiografia, interrotta con il '62. Visse ancora altri nove anni, piuttosto tristi e delusi, in cui stese i trattati Dell'oreficeria e Della scultura, pubblicati in vita.
L'autobiografia fu dimenticata e sarà pubblicata solo nel 1728.

Giorgio Vasari, amico dei nemici, da Cellini chiamato "Giorgetto", non inserì la sua tra le vite degli "eccellenti", pur stendendo quelle dell' Ammannati e del Bandinelli, e si limitò a dare di straforo questa sintesi: animoso, fiero, vivace, prontissimo e terribilissimo, e persona che ha saputo pur troppo (anche troppo) dire il fatto suo a' Prìncipi.
Esatto e molto elogiativo per noi, ma non per il Vasari.

Benvenuto Cellini nacque nel 1500, da vecchia famiglia artigiana, di cui era orgoglioso, a Firenze, che amava non solo come la sua patria, ma come "la Scuola di tutte le virtù". Andò presto e per vocazione a bottega di oreficeria, come molti grandi artisti, esempio che incoraggiò il suo ingegno e le sue ambizioni; alle quali restò sempre fedele, sostenendo una vera lotta contro l'ambizione patema, che ambiva a fare di lui non un mercante o un giurista ma un suonatore di piffero. Effettivamente Cellini ne aveva talento ed era arte apprezzatissima. La vinse Benvenuto, ma per il padre fu un dolore mortale.

A diciannove anni andò nell'inevitabile Roma, sempre a bottega. Lavorava, amoreggiava, vociava, litigava con puntigliosa irruenza e maneggiava bene le armi. Un ottimo "scoppietto" se l'era fatto con le sue mani. Noi, figli di Stati di diritto decaduti a Stati burocratici, concepiamo la violenza limitata a certi spazi e ceti più o meno marginali, ma allora era normale. Si andava sempre armati, si battagliava per poco e la faida era addirittura d'obbligo.
A Benvenuto uccisero un fratello, e non se ne dava pace. Il papa, Clemente VII, con cui Cellini aveva stretti rapporti per via dell"'arte", se ne accorse e gli ricordò che per la morte non c’è rimedio; ma Benvenuto diventava sempre più cupo e sofferente, finché riusd a ficcare un pugnale nel collo dell'uccisore; allora respirò.
Il papa, quando lo rivide, lo scrutò torvo, poi prese in mano il lavoro che Benvenuto gli portava, si perdette a guardarlo, sorrise, e infine, licenziandolo, concluse: "Or che tu se' guarito, Benvenuto, attendi a vivere".

Clemente VII, soddisfatto delle medaglie di Cellini, lo aveva nominato "maestro" della zecca pontificia con lo stipendio discreto di sei scudi mensili. Benvenuto venerava il Vicario di Cristo e questi adorava l'arte di Benvenuto: due valori e dignità diverse che s'integravano e di fatto si pareggiavano. Alla vista delle sue monete, il papa esclamò: "gli antichi non furno mai sì ben serviti di medaglie". Si sentivano ancora nell'Impero di Roma.

Questa idillica normalità fu guastata, più che dalla rivoluzione protestante, bene o male lontana e affidata a chi di dovere, dall'invasione dei Lanzichenecchi del Borbone. Cellini combatté come cannoniere. Dalla terrazza di Castel Sant'Angelo maneggiava la sua colubrina con molto gusto. Un giorno vide un ufficiale appoggiato alla spada in posa spagnolesca, credendosi fuori tiro: Benvenuto studiò bene la traiettoria e fece centro "rompendolo in due". Ma lo spostamento d'aria, causato da una carica esuberante, fece piombare un barile di sassi sulla terrazza dove due cardinali stavano altercando, incolpandosi reciprocamente del disastro, e per poco non furono "stiacciati tutti dua".
Infuriati di paura, ordinarono l'arresto del cannoniere il quale non fece che girare verso i commilitoni la sua colubrina.

Tutto passò, anche il papa. Paolo III non fu meno di Clemente estimatore dell'artista: a certi calunniatori ammonì: "Voi non la sapete bene sì come me. Sappiate che gli uomini come Benvenuto, unici nella lor professione, non hanno da essere ubrigati (obbligati) alla legge."
L'artista è il superuomo, al di là del bene e del male? Sì, ma fino a un certo punto. E i guai di Cellini vennero proprio dal figlio del papa, che l'accusò di avere sottratto gioie al tempo del sacco di Roma. Anche se il difensore è l'interessato, è chiaro che non era vero. Ma fu imprigionato, sempre a Castel Sant' Angelo, e soffrì infinite angherie che lo portarono alla disperazione. Al culmine delle sue pene Cellini ebbe una visione straordinaria che non dimenticherà mai più, Dio e la Trinità. E dopo, per tutta la vita, restò sul suo capo una luce, visibile nelle ore del tramonto e dell' alba, e solo alle persone che voleva lui. Non si può dubitare della sua
certezza. Durante la visione seppe anche il giorno in cui l'avrebbero liberato.

Aiutarono il compimento del miracolo l'intemperanza e la cattiva digestione del papa. Era un buongustaio, cosa che scontava con un vomito regolare. Un giorno era venuto a trovarlo il cardinale Ippolito d'Este (di cui quello dell' Ariosto era zio), e cenarono insieme. Al momento del vomito l'ospite chiese grazia per Cellini e l'ottenne subito. Dopo di che, il cardinale e il miracolato partirono per la Francia, ospiti di Francesco I, a cui Cellini piacque molto anche come
personaggio.

Gli regalò un castelletto per poter lavorare; il re capiva il suo valore anche se l'artista non capiva del tutto che un re, in guerra contemporaneamente con Carlo V e gli inglesi, non poteva pensare solo alle opere d'un artista. Le quali furono molte, non solo di oreficeria (famosa la saliera, oggi a Vienna), ma molte statue e infine un vero e proprio colosso di una dozzina di metri. Non fu terminato e non si sa bene il perché, né che fine abbia fatto.

Le disavventure di Cellini in Francia furono molte e rumorose; si sentiva sempre più perseguitato dalle "avverse stelle". Aveva invece una rara abilità a recare danno a se stesso, anche per due nobili ragioni, la fierezza dell'artista e l'amore per l'arte. Nel '46 tornò in Italia, un po' per i maneggi dei soliti traditori, un po' per aiutare la sorella e i nipotini e soprattutto per nostalgia. Sappiamo come amasse quella "Scuola di tutte le virtù", ma sospirerà molto il re di Francia, soldatesco e cordiale.

A Firenze era signore Cosimo I dei Medici, che lo assunse ai suoi servizi. Non erano adatti a capirsi, perché il Duca e la sua famiglia erano già una famiglia ricca di oggi. C'erano parzialità meschine, coll'aggravante che il Duca si credeva grande intendente d'arte perché grande dilettante. Nascevano discussioni. Una volta il Duca, piccato di sentire dubitare della sua perizia, la proclamò come un ordine: "Sì, ma da Principe, non da artista", cercò di spiegare Benvenuto, cioè da persona istruita ma non del mestiere.
E poi ci mise il naso la Duchessa. Abbiamo visto che ci ha rimesso, oltre che Benvenuto, la Piazza della Signoria.

A conti fatti Cellini aveva ucciso tre uomini (a parte gli scontri più precisamente militari, di cui aveva ricevuto assoluzione preventiva), commesso normali e perciò non calcolabili peccati carnali e lasciati non pochi figli bastardi; con questo non aveva mai dubitato di Dio Padre, della sua protezione e della sua approvazione per le sempre giuste vendette; anzi in qualche caso le aveva fatte al posto suo. L'aveva sempre soccorso nei momenti estremi e aiutato perfino nella drammatica fusione del Perseo (cosciente della sua empiria tecnica, attribuiva la riuscita, onestamente, a un miracolo).
Dio era il primo dei Signori, il solo galantuomo, non aveva colpa né delle stelle avverse né della malizia umana. Nelle sue rime confessa la sua fede spesso e non senza originalità (son. 102).
Aprì la sua biografia con un sonetto che comincia:

Questa mia Vita travagliata io scrivo
per ringraziar lo Dio della natura...

Il demoniaco non gli faceva nessuna paura. Anzi, una volta fece un esperimento con un negromante, nel selvaggio Colosseo, dove furono evocate torme di spiriti maligni, e ci volle del bello e del buono per dissiparli; alcuni lo seguirono sui comicioni delle case fino alla sua porta. Anche nel suo castelletto in Francia ce n'era uno di cui non si preoccupava.

A posto con l'Oltremondo, nel mondo importava l'arte, anzi la "virtù", il valore. Virtù e virtuoso sono le grandi parole del libro. "Virtuoso" sostantivato era ogni uomo di valore, e perfino una singola opera d'arte poteva essere una "virtù". Un festino tra artisti, in compagnia delle relative fanciulle (dette in gergo "cornacchie"), era una "virtuosa cena". Un discorso forbito, con un bel portamento dell' oratore, erano, tutto insieme, "virtuose parole" (II 2). Quella che noi diremmo fantasia e genialità erano i "virtuosi concetti" (II 22).
Era questa venerazione per la virtù che faceva Cellini così intrattabile. Anche la grande opinione di se stesso dipendeva dalla sua vocazione, ed era come quella dei santi e degli antichi stoici sempre un po' escatologica; più “fede di cose sperate" che fatto avvenuto.
Questo eterno futuro gli dava un presente frenetico, impaziente, attivissimo e dal di fuori abbastanza buffo; quando promise un Nettuno che neanche Michelangelo avrebbe fatto, fece ancora una sfida al futuro e una provocazione al suo spirito creativo.

Cellini scrive nell'italiano più naturale e meno purista del secolo; cioè nella sua lingua nativa, che riteneva semplicemente normale. Certa critica più recente mette in dubbio questa impressione, che è stata la prima e la più immediata, dal Baretti al De Sanctis, ed è ancora deliziosamente evidente. Non mancano neppure gli errori e le oscurità del toscano parlato, i suoi pronomi ancora vivi:
"Vostra Santità dette commessione al Cavalierino che donasse un certo poco premio delle mie fatiche, il quale io non ebbi nulla, anzi mi disse più presto villania..."; e il papa (toscano anche lui) rispose: "Benvenuto, io sono certissimo quel che tu di', il quale ti posso assolvere d'ogni inconveniente" (I 43).
L'alterco tra Cellini e il Bandinelli nella "guardaroba" (laboratorio-museo) del Duca Cosimo, in presenza sua e di alcuni dignitari, provocato dal giudizio su un’“anticaglia" appena venuta imballata da Roma, è perfettamente registrato (anche nella pronuncia, a mme, affirenze, io nonnarei...) e vale più di qualunque commedia (II 69-71).

Cellini scrive fisunnumìa e simitrìa, si vede quanto il latino ha contribuito, almeno nel lessico colto, all'italiano. Sarebbe, in termini
manzoniani, un toscano di "mal parlante"; Cellini ne avrebbe riso. In compenso non si sente mai purista con i non toscani, mai nota, nell'universo panitaliano in cui visse, difficoltà o solo differenze. È sempre per lui italiano.
Solo una volta gli capita di ridere per ore dello sproloquio, in un "giulìo parlar milanese", d'un compagno di disavventure lombardo, ma solo perché era oltremodo buffo il personaggio e così drammatica la situazione che non restava se non una reazione di risate.

Nessun libro come la Vita di Cellini raffigura la realtà del tempo, ed è il solo di quella grande epoca che si legga con vero divertimento; merita la sua enorme popolarità fuori d'Italia, che risale ancora a Goethe, uno dei suoi numerosi traduttori.
L'uomo del Rinascimento è sempre stato più o meno leggendario: dämonisch, atroce, geniale, cinico, venefico... Fu semplicemente un' età, come nessuna, innamorata dell' arte. Il merito di Cellini è quello di rendere a questa eccezione, a questo miracolo umano, la sua realtà e quotidianità.

Pubblicato in «La Nuova Tribuna Letteraria», anno XIV, n. 75, 2004, pagg. 8-10