“S’i fossi foco arderei il mondo…” è il verso più famoso della nostra poesia e questo è il sonetto più ricordato dai giovani, che sono o che si credono ribelli e rivoluzionari. Ma Cecco Angiolieri non è stato sempre letto e ammirato, soprattutto per una ragione filologica più tardi spiegata. Ho enucleato tutti i sonetti certamente suoi e ne è balzata fuori nitida la figura di un Cecco così diversa da quella che si pensa: era veramente innamorato di quella Becchina che tutti gli studiosi calunniano. Era una ragazza fiera, onesta, tutt’altro che insensibile al sincero amore di Cecco e poi sposata a forza e sposata male; ciò che crebbe in Cecco la gelosia e il dolore.  (E.M.)

 

Storia di Cecco

 

Cecco Angiolieri nacque a Siena in un anno che si può dedurre in modo un po' approssimativo: fissiamo il 1260. Era una delle famiglie in vista, la sua: messer Angioliere degli Angiolieri era banchiere del papa Gregorio IX e sposò una Salimbene: aveva circa quarantacinque anni ed era già stato membro della Signoria quando gli nacque Cecco.

Il ragazzo crebbe fanciullo di riguardo, e pareva buono e come si deve (161), osservante, degno di suo padre. Il quale, non bastandogli la fede guelfa, si fece frate gaudente. Possiamo immaginare un interno ricco e sobrio d'una delle tipiche case-fortezze di quella bella città rissosa e ambiziosa. E bisognò fare il proprio dovere quando ci si dovette battere contro i ghibellini. Cecco vestì la corazza e fu all'assedio di Turri nel 1281. Era ancora sotto le armi l'anno seguente; lo sappiamo da due documenti d'archivio che attestano tre multe per diserzione e indisciplina. Aveva ventuno e ventidue anni, suo padre sessantasette e sessantotto; un padre anziano, con un figlio unico e giovane, è di solito troppo indulgente, ma messer Angioliere era personaggio autoritario e duro. Cominciò presto una grande battaglia. Non sappiamo tutto di Cecco, ma certo non gl'importava gran cosa degli ideali paterni e non molto di qualunque cosa ideale. Forse neppure della poesia. Ma ne leggeva molta e sentiva di poter fare almeno altrettanto. Diventerà la sua confidente. Aveva gusto e orientamenti sicuri. Poco "amor cortese", per esempio, da cui imparerà quel tanto di espressioni devote (servire, umiltà ecc.) che erano entrate nel costume ed erano una sorta di galateo. Non sappiamo niente del suo aspetto, ma possiamo immaginarlo un giovanottone bruno con un grosso volume di voce. Parlava e scriveva in senese pretto, senza problemi linguistici.

 

In una città così piccola e folta le frequentazioni erano miste, sebbene le classi sociali fossero molto sentite. Tra la gente del popolo Cecco trovò la ragazza insostituibile: una Becchina (Domenichina) figlia di tal Benci, cuoiaio. Avrà avuto circa venticinque anni, età degli amori che segnano per tutta la vita. La trovava bellissima. Il suo viso era "una rosa novella" (4); se Beatrice ispirava umiltà, Becchina avrebbe ridato la giovinezza a un vecchio (40); ma non era un angelo e Cecco la desiderava. L'amore maschile è timido, anche nei temperamenti sensuali, e l'approccio fu difficile, tanto più che Becchina era la fierezza in persona. Presto se ne accorsero tutti, compreso l'Angioliere. La figlia di Benci, il cuoiaio? avrà detto e pensato: un vero peccato mortale. Dello stesso parere era la madre. Ma il ragazzo era ormai prigioniero, e non di una donna angelicata, ma d'una ragazza, d'un ambiente, d'un costume, d'una realtà irremovibile. Il padre, per star nel sicuro, strinse i cordoni della borsa. Era l'embargo della sua politica. Che fosse debitamente avaro, anche se Cecco era un giudice sospetto, doveva essere vero: "Continua a maledirmi (scrive, 36) perché ho rotto un bicchiere dieci anni fa"... Sa di vero. La società patriarcale, allora come nell'antichità, faceva il padre padrone di tutto (veramente anche oggi, ma solo nel diritto: il costume ha capovolto le cose). Concludendo, possiamo credere che Becchina non abbia ricevuto nessun regalo dal suo innamorato. Lo diciamo perché questa oscura ragazza di settecento anni fa è stata, a gran distanza, una delle donne più calunniate della storia letteraria.

Così Cecco scoprì che c'è l'Inferno in terra. E che d'amore non si muore, come il conte Ugolino scoprì che non si muore di dolore. "Egli è sì agro il disamorare..." (5). Pensa al suicidio. Con Becchina aveva cominciato con la solita tecnica dei seduttori e della polizia, convincerla che avrebbe ceduto (27); vista la mala parata, si decide per l'umiltà, come si diceva (7). Passano gli anni. Nell''88 scoppia la guerra tra Firenze e Arezzo, e Siena manda rinforzi a Firenze: messer Angioliere trova doveroso arruolarsi e parte per il fronte con suo figlio. Forse si batterono a Campaldino; ma a Cecco non importava niente di Firenze e di Arezzo, e al ritorno, non cambiando le cose, si confidò con suo padre, lo pregò, cercò di fargli capire che cosa sono l'amore e la felicità (40): il frate gaudente non capiva, sapeva solo che suo figlio non poteva sposare la figlia del cuoiaio. Anche il cuoiaio la pensava così, e molti altri del giro, un Poggese, un Mito, una Turella. Tutti, anche per invidia verso messer Angioliere, erano per l'ordine e contro l'amore. Ma Becchina capiva. "Amor che a nullo amato amar perdona" è un detto eterno, ma relativo. Dalla logica matrimoniale Becchina non poteva uscire. Le mura d'una città medioevale non solo difendevano, ma chiudevano, imprigionavano. Cecco, col semplicismo della logica e della passione, sapeva che bastava che il padre provvedesse di suo alla mancata dote della ragazza. Figurarsi; c'era di mezzo, oltre al sangue blu (sbiadito), il puntiglio, il pregiudizio, l'avarizia, lo spirito d'autorità, forse l'odio. Ci sono vecchi che odiano i giovani anche se sono figli, e quasi non desiderano essere amati. Ormai, gl'importava di quella che avrà detto l'anima sua, anche se Cecco era convinto che non credesse a niente "sopra il tetto" (95).

Eppure l'amore (o Amore come diceva Cecco e si usava dire) tentò di rompere l'impasse. Ci furono discorsi intimi, appassionati, realistici, che Cecco riassunse nel più sorprendente dei suoi mimi (39, qui il IV): purtroppo vi campeggia una lacuna, ma proprio qui doveva esserci, chiara e schietta, la richiesta di matrimonio. Non vogliamo approfittare di un testo mancante, ma non c'è richiesta estrema possibile se non questa, nell'orizzonte di Becchina, e l'ostacolo doveva essere enorme se Cecco ne è addolorato con tale sincerità che Becchina prorompe nel più popolesco, carnale, femminile romanticismo:

Cecco, l'umiltà tua m'ha sì rimossa,
che giammai ben né gioia il mio cor sente,
se di te nove mesi non vo grossa.

Gli si diede davvero? No. Quella che i professori definiscono una mercenaria, era vergine (27). Cecco era gran gentiluomo? No, era troppo autentico. E' l'amore che è gentiluomo. E per giunta beffato dagli eventi. Ma si baciarono. Un bacio sulla mano aveva fatto di Cecco una specie di idealista felice, orgoglioso della bellezza e della gloria dell'amore. Poi ci fu il gran giorno dei baci appassionati (34). Cecco ne fece una specie di lapide con tanto di data:

E fu di giungo venti dì all'entrante,
anni mille dugento novantuno.

Il cuore trionfava, ma la muraglia restava. La clandestinità era difficile, ma ci fu. Un giorno, Becchina, lontana tre giornate di cammino, lo invitò da  lei, e quel giorno - così è la vita - Cecco non disponeva di un cavallo. Chi la crede una trovata dello stile "comico" ride di poco, ma soprattutto conosce poco la vita, la poesia che è vita e le maledette iatture della gioventù. Poi ci fu una specie di tradimento: apparente perché operato dal sesso e non dall'amore, e il sesso non è altrettanto gentiluomo. Naturalmente lo riferiscono a Becchina, troppo donna e giovane (di quei tempi) e reattiva per tollerare (47). I due casati intanto preparavano due matrimoni preventivi. I soliti nemici riferirono a Cecco la cosa nel modo peggiore. Intanto a Becchina, per tirare avanti, non restava che fuggirlo (45), respingerlo, fingere la più solida indifferenza (si legga qui il "mimo" III). Peggio, Cecco credette che fosse un matrimonio d'amore, un vero tradimento, e si difese (50). Pensò di morire. Lo pensò al punto che, diventando un po' pio come il padre, temette le pene che l'Inferno riservava ai suicidi (51). In ogni epoca il suicidio si trova di fronte i suoi migliori alibi.

Allora pensò di darla vinta al "babbo": si sposerà anche lui. "Or moglie vo' com'io odio il gaudente" (52), pittoresca sintassi: Cecco si sposa come odia, cioè per manifestare il suo odio per il frate gaudente. Giura di spassarsela, dopo. Potrà spendere, almeno. Se sarà infelice prenderà in giro l'infelicità mettendosi una maschera di allegria (82).

Il padre avrà certo procurato alla nuova coppia un alloggio, si direbbe non contiguo, per vedere meno figlio e nuora. Un sonetto di Cecco dice amaro che ha visto per strada la madre e l'ha salutata, ma per tutta risposta s'è sentito augurarsi di farsi ammazzare (85). La povera moglie doveva sorbirsi da sola questo Cecco che l'ha sposata per vendetta contro suo padre, Becchina e la sorte, ed è ormai il peggiore dei cinici, quello che vuole appassionatamente esserlo. Spendeva quanto poteva. Si accorse che le donne costano care (69), che ci vogliono gioielli (68); anche adesso la generosità paterna era disperatamente scarsa, e le nuove passioni, anche adesso, restano deluse:

Tre cose solamente mi so 'n grado,
le quali posso non ben men fornire:
ciò è la donna, la taverna e il dado;
queste, mi fanno il cuor lieto sentire!
Ma sì me le conven usar di rado,
ché la mia borsa mi mett'al mentire...
(87)

A casa la moglie, secondo lui, non faceva che strillare; era uno stridio perpetuo (80), ma non si può darle torto. Lo supplicava di fare economia, di amministrare la sua roba, di "far masserizia"(79). Questa "masserizia" era la parola più insopportabile del vocabolario senese. Siamo nell''85 circa, Cecco è nel fiore degli anni. La sua "malinconia" e il suo odio per l'universo hanno l'energia dell'età. Scrive ora il sonetto celeberrimo:

 S'io fosse foco, arderei 'l mondo;
s'i fosse vento lo tempesterei;
s'i fosse acqua i' l'annegherei
s'i fosse Dio, mandereil' en profondo;
S'i fosse papa, sare' allor giocondo,
ché tutti cristïani imbrigherei;
s'i fosse 'mperator, sa' che farei?
A tutti mozzarei lo capo a tondo,
S'i fosse morte, andarei da mio padre;
s'i fosse vita, fuggirei da lui;
similemente faria da mi madre.
S'i fosse Cecco, com'i sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre;
e vecchie e laide lasserei altrui.

Lo leggerei con qualche pausa tra le protasi e le apodosi per accentuare in quelle un disperato desiderio, meno l'ultima, che cade nella più desolata elegia. Non essendo che Cecco, non gli restava che ingaglioffirsi più che poteva. E trovò il tempo di soffrire anche per Becchina. La povera ragazza aveva avuto in sorte il peggiore dei mariti, "che le fa peggio che a me non fa il babbo", verso che rivela, nell'infallibilità del linguaggio, quanto l'eterno ragazzo fosse rimasto anche un eterno bambino. Ma aveva imparato, senza saperlo, il grande, il vero amore: quando ebbe coscienza di non soffrire dei mali di Becchina si sentì miserabile:

 ed io, dolente! son sì impoverito
ch'udendol dire si me ne rido e gabbo.

"Impoverito", aggettivo grande. Non era l'amore ricchezza e gloria?(53) Dunque la sua trista gioia era povertà. In un altro sonetto c'è aristocrazia anche maggiore (54): quando Becchina, che era diventata terribile, l'accusò di non aver ammazzato per tempo quel marito, Cecco confessò nudamente che non si sentiva di levare le mani su chi era stato felice per causa di lei ("poi che per tua cagion ebbe la gioia"). Becchina non lo capì, e meno ancora i lettori postumi. Ma non sappiamo se Petrarca, maestro del sublime azzurro e aureo, toccasse mai quello, forse maggiore, che è grigio e perdente.

Intanto i debiti crescevano e il padre era sempre vivo. Toccava gli ottanta o giù di lì (95) ma non dava segno di andarsene. Doveva essere immortale (93), come il padre d'un altro Cecco, omonimo, confidente e compagno di sventura. Nella Bibbia non c'era gente che diventava eterna senza morire? Ne erano preoccupati. Questo pensiero finì per diventare la suprema speranza di Cecco, e quando il sogno si realizzò, nel modo improvviso con cui avvengono le cose troppo attese, Cecco scrisse il più trionfale dei suoi sonetti, dopo quello dei baci di Becchina. Non si disperin quelli de lo Inferno: non è eterno come si dice. E spedì il messaggio all'omonimo: Muovi, nuovo sonetto, e vanne a Cecco..., verso, nel contesto, trepidante, lirico, alato.

Si era verso la fine del secolo. Cecco si godeva l'ozio, se non la vita, fatalisticamente preoccupato del calo delle finanze. Di "far masserizia" non era capace; trovava piacere solo a raccontarsi in versi. Mandò anche un sonetto a Dante, senza ricevere risposta, pare. Ma quando seppe, nel 1302, che era rovinato e sbandito, gliene mandò un altro un po' sgangherato, in cui fingeva di trovare certa contraddizione logica in un sonetto della Vita Nova. Meno polemica che beffa e meno beffa che ridancianeria. Ma Dante rispose con un sonetto - perduto - di improperi, a ognuno dei quali Cecco replicò puntualmente e acutamente; ma concluse:

Sì che laudato Deo, rimproverare
poco può l'uno l'altro di noi due:
sventura e poco senno cel fa fare.

L'ebbe vinta, anche ai nostri occhi. Non sappiamo altro e probabilmente non ci fu altro fino alla morte, del 1312 o '13. Finì come un grosso cane che non si vede più in giro. Un documento c'informa che la famiglia rifiutò l'eredità. Per arrivare a tanto, bisognava non solo che i debiti superassero di troppo l'asse ereditario, ma che del buon nome del padre ci fosse ben poco da salvare.

I sonetti di Cecco circolavano, piacevano e divertivano, ma non davano soggezione. Venivano alterati e sempre più trascritti anonimi. Solo una ventina d'anni dopo la morte un estimatore trevisano, Niccolò de' Rossi, ne raccolse venticinque col suo nome; è il nucleo che permetterà la ricostruzione del canzoniere. Tutti gli altri ancora oggi sopravvivono sparsi in una letteratura anonima di autori diversi. Sarebbe stato abbastanza facile riconoscere la personalità e lo stile dell'autore e risentire i famosi nomi, Becchina, Benci, Cecco, l'Angioliere... Eppure questo fu fatto molto tardi. Il Romanticismo, adatto a capire un Cecco, non lo lesse; la classica letteratura del Ginguené lo ignora. Fu un professore dabbene dell'Ottocento, Alessandro D'Ancona, a farlo conoscere, per la passione positivista di "pubblicare" fonti e inediti, ma non senza scuse: "Se abbiamo cuore" scriveva nel 1874, non possiamo non prestare orecchio a "uno sventurato che piange".

Il nostro secolo, nei tempi buoni, era adatto a capirlo e capì la sostanza sincera e dolorosa di quell'umorismo: c'è, disse Croce, "un fondo, in quella tristizia, di tristezza". Il famoso S'i fosse foco "esagera per gioco il suo odio e il suo furore": "gioco" è parola stonata, ma l'impressione è giusta, normale. Per la solita passione, più naturalistica che idealistica, Croce l'annoverò fra i poeti autobiografici.

Crediamo che Cecco Angiolieri meriti molto di più, perché fu scrittore della realtà come nessuno nel Medio Evo italiano, anche se si trattava della sua realtà, o, appunto, autobiografia. Croce stesso non valutò abbastanza la portata del suo giudizio, per l'opinione, più che giustificata, che l'aspetto autobiografico della poesia è metodologicamente estraneo e in effetti infido. Ma non sempre. Tutto ciò che in Dante è autobiografico è più che realistico, è simbolo e assolutezza. In Cecco, poeta candidamente assente di astrazioni e di idealità, è tutto vero, è la verità d'una vita. Caso raro, forse unico insieme a quello della cinquecentesca Gaspara Stampa. Cecco non aveva che le sue passioni, come il lontano Archiloco, e le fece universali come Archiloco. Tra queste passioni non c'era solo l'amore, c'era l'ira, lo scontento, la noia, la nausea di vivere, e una immensa vitalità. L'amore per Becchina occupò un decennio della sua vita ma lo segnò per sempre. Certo nelle bettole e tra i compagni tra cui passava buona parte del suo tempo, non sapendo parlare che di sé e dei suoi guai, doveva anche distrarsi e divertire, mettendo in caricatura il suo cuore e la sua storia. Questo è evidente. Ma tra il suo atteggiamento e certe tesi critiche che parlano di raffinatezza e di parodie e addirittura di abile e raffinato e letteratissimo antistilnovismo, ci passa.

Cecco è l'anti-Dante e Becchina è l'anti-Beatrice in senso molto più serio. Con lui comincia il raro e perciò prezioso filone realistico della letteratura italiana. Con la Vita Nova si apre quello dominante, a volte sublime, più spesso ambiguo, il falso, facile, stucchevole idealismo italiano. Il genio nazionale pecca di evasione non meno che di retorica. La pittura, arte italiana per eccellenza, ha troppi angeli, troppe Madonne, troppo idillio. Perfino l'oltremondo italiano è troppo poco terribile; basta confrontarlo con quello tedesco, dove il diavolo è protagonista e l'orrore abbonda. In Germania è maturato Mefistofele, in Italia non si è mai andati oltre Belfagor, con rare eccezioni come Dante e Michelangelo. Il nostro modo di esorcizzare il Maligno e il male è prenderlo in ridere, abitudine abbastanza estesa in ogni cosa, con serio danno di alcune qualità indispensabili, il senso dell'onore, della responsabilità, della colpa e della pena. C'è oggi un ecclesiastico progressista che scopre che l'Inferno è vuoto. I tempi seri in cui Papini fu condannato perché immaginò, nella sua esuberanza, la redenzione finale dei diavoli (che è tra l'altro tesi antichissima del Cristianesimo), sono finiti.

Di realismo ne vedremo poco, anche se non si dissocia necessariamente dall'idealismo. Perché Cecco sia superato, bisogna aspettare un Carlo Porta. A triste conferma dell'evasione, ci sono gl'idealisti capovolti, i pornografi, di cui il primo è l'Aretino e oggi sono legione.

Caratteristici di Cecco sono certi sonetti-mimo che 'riassumono' la situazione. Il loro sapore di sketch è tale che ne tradurrei alcuni (con assoluta fedeltà) con qualche didascalia sostitutiva della voce. Il lettore giudichi se i due protagonisti sono un femminiere e una donna da strada (naturalmente qualche donna da strada compare al tempo dei due assurdi matrimoni, ma non ha mai il nome e l'aspetto di Becchina).

 

Mimo I (27)

C. - (spavaldamente ironico): Mezz'etto di carne e chilo di cattiveria, perché vuoi farmi credere quello    che non senti?
B. - Matto che sei, speri di avere a gogò quello che vale oro?
C.  - Quello che dici non mi fa né caldo né freddo. Peggio parli e meglio io spero.
B.   - Credi che ci sia l'uomo che avrà le primizie? Tu no, questo te lo giuro.
C.  - Ma se si vede lontano un chilometro che sei innamorata cotta. Solo una donna davvero innamorata parla come te.
B.  - Ma lo vuoi proprio, sbagliarti in questo. Resta nella tua illusione e va a farti benedire
(pausa, poi seria e decisa, con un gesto di giuramento) Io ti prometto...
C.  -
(interrompendola con comico spavento) ... che mi hai dato il buongiorno (svicola prima di sentire il resto).

 

Mimo II (47)

C. - (quasi impaurito, a bassa voce): Becchina, amore...
B. -
(furiosa): Che vuoi, falso, traditore?
C. - Che mi perdoni.
B. - Non lo meriti.
C. - Ti supplico, in nome di Dio.
B. -
(ridendo, ambigua): Come sei diventato buono...
C. - Lo sarò sempre.
B. - E chi me lo garantisce?
C. - La buona fede.
B. - Ne hai poca, tu.
C. -
(serio): No, verso di te, no.
B. - Stai fresco se mi fido.
C. - Che male ho fatto?
B. -
(seria): Lo sai che lo sono venuta a sapere.
C. - Dimmi che cosa, amor mio.
B. - Ma va, vorrei che ti sfregino quella faccia.
C. - Vuoi che muoia?
B. - Magari, non vedo l'ora.
C. - Non parli bene, adesso.
B. - Me lo insegni tu a parlar bene.
C. - Davvero ci muoio.
B. - Purtroppo, me la dai ad intendere.
C. - Dio ti perdoni.
B. -
(spazientita, dopo una pausa): Be', che aspetti ad andartene?
C. - Potessi sì andarmene...
B. - Ti tengo per la giacca, io?
C. - Mi tieni il cuore.
B. - E lo terrò per farti star male.

 

Mimo III (22)

C. - Becchina mia...
B. - Cecco, questo non te lo riconosco.
C. - Ma io sono tuo!
B. - E questo io lo smentisco.
C. -
(con tristezza spavalda): Be' sarò d'un'altra.
B. - Non me ne importa un fico secco.
C. - Adesso mi offendi.
B .-
(ridendo): Mandami i padrini...
C. - Qualche donna di malaffare...
B. - ... Le spacco la testa!
C. - E chi, gliela spacca?
B. - Be', sta attento.
C. - Ma come sei antipatica.
B. - Be' coi nemici sì.
C. - Allora io non c'entro.
B. - No, proprio tu c'entri.
C. -
(dopo una pausa densa): Mi eviti...
B. - Va' al diavolo.
C - Questo non lo vorresti, Becchina.
B. - Perché non dovrei volerlo?
C. - Perché un cuore ce l'hai.
B. - Ah per te no, non c'è pericolo.
C. - E se al posto mio ci fosse un altro?
B. -
(con un sorriso complesso): Lo consolerei...
C. -
(ferito): Non sei quella che credevo.
B. -
(guardandolo): Adesso sei tu che menti.
C. -
(smarrito): Non so come fare...
B. - E allora continua a star male.

 

Mimo IV (39)

(La coppia è seria come non mai. Cecco ha dipinto in faccia un'onestà strepitosa quanto sincera).
C.- Becchina, amor mio, io ti detestavo, ce ne avevo fatto quasi un'abitudine... E invece ti amo, e da galantuomo.
B. -
(con serietà commovente): Cecco, potessi fidarmi di te! allora sarei proprio tua.
C. - Becchina, amore mio, mettimi alla prova. Giudica tu se sono un galantuomo o un mascalzone.
B. - Cecco, te lo dico francamente, tu mi devi sposare
2.
C. - 
(amaro): Becchina, amor mio, vedo chiaro che non vuoi che io sia tuo. Lo sai che mi chiedi una cosa impossibile.
B. - 
(appassionata): Cecco, Cecco la tua umiltà mi sconvolge. Sarò felice quando sarò incinta di te, al nono mese! (sull'espressione commossa e ammirata di Cecco, si fa buio).

 

Mimo V (54)

C. - Becchina, da quando mi ti hanno portata via, son passati due anni, e mi sembrano cento. Due anni di angosce e di pena.
B. - 
(risoluta e disperata): Lo credo, Cecco, che tu soffra. Ma io vorrei che tu soffrissi anche di più. Non so se ho ragione o torto, ma lo voglio dire. L'uomo che mi ha portato via, perché non l'hai ammazzato?
C. - 
(lunga pausa, poi, a voce bassa): Becchina, non posso. Non ce la faccio. Non deve morire perché l'hai fatto felice, proprio tu.
B. - 
(immediata): Anch'io ti dico la verità, che se mi regalassi un reame, io non ti voglio consolare.

nota 1: Sonetto XVI, vv. 5-6 nell’edizione a cura di Maurizio Vitale, Rimatori comico realistici del Due e Trecento, Torino, UTET1956 (uguale è il testo vulgato della BUR). Per evitare appesantimenti nell’esposizione sostituisci i numeri romani con quelli arabi, senza specificare i versi, facilmente reperibili.

nota 2: La battuta di Becchina è perduta perché l'amanuense ha ripetuto, in luogo di essa, i due versi della prima di lei: ma certo chiedeva ciò che più poteva desiderare e che Cecco doveva, dolorosamente, ricusare (v. pag. 43).

 

 

Pubblicato in «La Nuova Tribuna Letteraria», n. 74, 2004, pagg. 10-13

 

 

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